La popolarità del calcio in Italia e nel mondo non teme né guerre né virus. Il Covid ha fermato attività fondamentali come la scuola, il commercio, il turismo, gli spettacoli ma non il calcio che, come abbiamo visto, può fare a meno anche del pubblico in presenza. Anzi i ripetuti lock-down, chiudendo le porte di casa, hanno accresciuto il numero di chi seguiva in televisione le partite, i commenti sportivi, il calcio-mercato e tutto il resto.
L’influenza del calcio nella vita quotidiana e nel costume del nostro Paese non è seconda a nessun’altra forma di sport o di spettacolo, in ciò contrastata soltanto dai social. Ma, come troppo spesso avviene con i social, il calcio si fa portatore di valori negativi. E non ci riferiamo soltanto alla quantità spropositata di danaro che vi ruota intorno, perché qualcosa di simile avviene anche per altre attività impropriamente definite “sportive” come i rallies automobilistici, il motociclismo o come il tennis. C’è anzi da dire che oggi i compensi favolosi percepiti dai campioni del calcio sono in minima parte giustificati perché se li sudano molto più di quanto non facessero i loro predecessori di 50 o 60 anni fa. All’epoca il calcio non era ancora un’attività atletica, non si correva come pazzi per 90 minuti, se non addirittura per 120. Se pioveva forte le condizioni dei campi di allora comportavano la sospensione della partita e ai calciatori veniva risparmiato un bagno con le sue possibili complicanze. Oggi ci si domanda come i calciatori siano protetti dai malanni stagionali, dai traumi subiti in gioco e dallo stesso Covid, visto che si rimettono in piedi in tempi sorprendenti. Miracoli dei preparatori atletici, dei medici o, più probabilmente, dei farmaci!
Ma, anche al netto delle attenuanti che dobbiamo riconoscere a chi intasca cifre mirabolanti, è innegabile che il mondo del calcio, insieme a quello degli sport “ricchi” cui abbiamo accennato, non sia eticamente orientato. E la cosa è ormai così sedimentata che gli stessi tifosi non ci pensano più e continuano a cullarsi nell’illusione che ci sia ancora un legame affettivo con la “loro” squadra anche se non vi gioca nessun connazionale né tantomeno nessun concittadino e finanche se la proprietà ha sede in Cina o in Arabia Saudita.
La diffidenza si concentra intorno alla figura dell’arbitro ed in particolare alla sua discrezionalità, fino a qualche anno fa inappellabile. Non si parla ovviamente né dei casi di corruzione né si intende generalizzare, ma resta il fatto che si è resa necessaria l’istituzione in campo di un giudizio di secondo grado, il VAR. E non è un caso che la sua creazione sia stata a suo tempo osteggiata da qualcuna delle squadre più “abbienti”, senza fare nomi. Gli stessi arbitri erano in parte contrari perché, in linea di principio, la cosa attentava alla loro autonomia di giudizio. In realtà il giudizio di appello riduce ben poco il potere dell’arbitro in campo perché trasferisce al giudice di secondo grado solo le decisioni più importante, se lo vuole. Ma le occasioni per intervenire direttamente sul campo rimangono tante e sono proporzionali al margine di libertà che viene lasciato ai giocatori: un regolamento rigido li indurrebbe a una maggiore correttezza e ridurrebbe, specularmente, il potere degli arbitri. E quindi la condotta dei giocatori in campo, sempre con le debite eccezioni, è ormai costellata da una serie di scorrettezze che gridano vendetta. La prima, gravissima, è la simulazione. Si assiste in tante partite ad una serie di “gesti atletici”: si parte dal semplice crollo al suolo a seguito di un buffetto o di una gomitata. La cosa richiede una certa abilità ed un’adeguata preparazione. Ci si chiede se la competenza sia stata acquisita con la frequenza di appositi corsi organizzati dalla Sezione ginnico-atletica dell’Accademia di Arte Drammatica. Scopo della drammatizzazione è quello di ottenere che l’arbitro fischi un fallo a favore anche se non c’è stato, oppure, se il fallo c’è stato realmente, che ammonisca o, meglio ancora, espella il colpevole. Se poi la sceneggiata avviene nell’area di rigore si aspira evidentemente alla concessione della massima punizione. La frequentazione dell’Accademia di Arte Drammatica si manifesta pienamente nella mimica della protesta rivolta all’arbitro: semplice cenno di disapprovazione (oscillazione ripetuta del volto da destra a sinistra) nel caso della punizione negata, netto disappunto seguito da una punta di visibile delusione nel caso di mancata ammonizione o espulsione ed, infine, espressione di incredulità accompagnata dall’apertura delle braccia, quasi in segno di ingiusta crocefissione, nel caso non venga riconosciuto il “sacrosanto” calcio di rigore. Non parliamo poi delle occhiatine che le presunte vittime lanciano, mentre si contorcono al suolo, per vedere chi ci è cascato, occhiatine oggi carpite impietosamente dalle telecamere. Il repertorio si completa poi con le varie tecniche messe a punto per far passare il tempo quando il risultato in essere è favorevole. C’è quella che si mette in atto nel momento in cui il “coach” decide di sostituire un giocatore: quelli ancora in campo cominciano col fingere di non capire chi deve uscire. Una volta individuato, il sostituendo lascia il campo con un passo che denuncia tutta la stanchezza accumulata nel corso della partita: esce con fatica. Ulteriori opportunità per perdere un po’ di tempo sono le rimesse laterali, i calci d’angolo e le punizioni con barriera. Prima dell’esecuzione ci si deve rendere conto di parecchie circostanze: i più arditi cominciano col controllare che il pallone sia abbastanza gonfio, mentre gli altri si accontentano di controllare più volte che la disposizione dei compagni di squadra sia soddisfacente. Taluni si sentono in dovere di ripetere questa verifica più di una volta. In caso di calcio di punizione la barriera deve essere perfetta prima che si stabilisca poi chi la batterà: un giorno, se andiamo avanti così, ci sarà un sorteggio sul campo per decidere a chi tocca. E poi ci sono le rimesse del portiere che, avendo davanti a sé la prospettiva dell’intero campo di gioco, impiega tanto tempo per verificare che tutto sia al posto giusto. Tutte queste tecniche vengono accompagnate con sguardi di viva preoccupazione. Essendo queste le abitudini ormai radicate, ci si domanda se era possibile evitarle. La risposta è sì, era possibile e qualche arbitro ci riusciva anni ed anni fa. In questo caso le partite avevano uno svolgimento più corretto, i calciatori facevano i calciatori e i falli, quando c’erano, erano autentici: l’arbitro era poco più che un notaio, coadiuvato dai due segnalinee. Ridotta la materia del contendere (falli, perdite di tempo eccetera) si riduceva automaticamente anche il potere arbitrale dal quale discendevano poche ed a volte scontate decisioni. Oggi la materia del contendere si è invece ingigantita e l’arbitro è diventato il deus ex machina delle competizioni calcistiche, anche all’estero. Non a caso si concede molto di più ai calciatori prima di fischiare un fallo: un tempo la famosa spallata era consentita solo tra avversari in corsa mentre oggi si permette tranquillamente di spostare un avversario mentre è staccato dal suolo, tanto per fare un esempio. Oggi la simulazione viene sanzionata molto raramente con conseguente ampliamento delle situazioni di scontro sulle quali l’arbitro dovrà, bontà sua, pronunciarsi. Ma, lasciando da parte tutte le implicazioni legate alla funzione arbitrale, alle sue origini (come e perché si diventa arbitri?) ed ai suoi possibili sviluppi di carriera, resta il fatto che il rettangolo di gioco propone, soprattutto agli adolescenti e ai giovani, il trionfo delle astuzie, delle falsità e dei comportamenti sleali, disvalori che contraddicono l’etica sportiva e l’etica in generale.