Il XVIII secolo è ricordato come il “secolo dei lumi”: la “dea Ragione” spodesta l’oscurantismo; in tutti i campi del sapere si avverte il bisogno di sperimentare la realtà e rifiutare tutto ciò che non è possibile spiegare razionalmente.
Nasce l’Illuminismo: un fenomeno culturale che si riflette in tutti i campi del sapere: nelle arti visive si impone il Neoclassicismo, trasformando il senso della teatralità e della maestosità tipicamente barocche in equilibrio, simmetria, regolarità e linearità. Napoli, sempre pronta ad accogliere le novità e farle sue, vivrà una stagione di rinnovamento artistico, urbanistico e sociale che verrà ricordato dalla storia come “despotismo illuminato“, di cui re Carlo III di Borbone fu uno dei più fulgidi esempi. Partenope assurge a ruolo di capitale culturale europea, tanto da far dire ad un giovane genio come Mozart in vista nella capitale nel 1770: “Quando avrò scritto l’opera per Napoli, mi si cercherà ovunque… Con un’opera a Napoli ci si fa più onore e credito che non tenendo cento concerti in Germania”.
Opere urbanistiche di stampo sociale si resero necessarie per gli effetti di un evento apocalittico che colpì l’Europa: le diverse ondate di carestia del XVIII secolo, conosciute nella memoria popolare come “gli anni del massacro“, detti “Bliain an áir” dai poveri irlandesi costretti a migrare verso gli Stati Uniti d’America per mancanza di sostentamento.
In quel periodo, infatti, nel Regno di Napoli si assisté a un grande processo di inurbamento: negli anni dal 1741 al 1767 dalle campagne di Terra di lavoro, dalle Calabrie e dalle Puglie i contadini stremati dalla fame affluirono nella capitale. Nel 1749 l’architetto Ferdinando Fuga fu chiamato a Napoli da re Carlo III di Borbone con l’incarico di progettare il gigantesco Albergo dei Poveri, pensato per accogliere le masse di poveri del Regno in fuga dalle carestie e dalle febbri.
Allo stesso architetto fu affidata anche la costruzione del Palazzo dei Granili che aveva la funzione sia di un immenso silos dove stipare le derrate alimentari, acquistate per fare fronte alla carestia, sia la funzione di evitare lo sciacallaggio dell’aumento dei prezzi al dettaglio. Queste coraggiose opere per i ceti più poveri, ispirate dal ministro Bernardo Tanucci, insieme ai decreti che abolirono i privilegi feudali ed ecclesiastici nei territorio del Regno, servirono ad arginare temporaneamente gli effetti nefasti del massiccio inurbamento. Infatti le condizioni peggiorarono presto, forse a causa delle cattive condizioni igienico-sanitarie della città o forse a causa di una nutrizione non adeguata della popolazione, e scoppiò una violenta epidemia di febbre putrida (scorbuto o pellagra) che mieté oltre mille vittime al giorno. Da secoli le salme venivano inumate nelle Terre sante (celle ipogee) delle chiese, mentre quelle degli indigenti venivano ammassate nella “piscina” dell’ospedale di Santa Maria del Popolo degli Incurabili (un baratro naturale che si apriva nelle viscere della città). Le antiche cave di tufo della Sanità (Fontanelle, Grotte della Stella e dei Cristallini) erano già state saturate nel secolo precedente con le vittime della peste (150.000 morti). Urgeva, quindi, una soluzione tanatologica per scongiurare ulteriori epidemie causate dalle salme abbandonate per le strade. Nel 1767 re Ferdinando IV, succeduto al padre nel 1759, incaricò nuovamente l’architetto Ferdinando Fuga di individuare una zona fuori dalle mura cittadine per costruire un cimitero per accogliere e seppellire le vittime delle febbri putride, i morti spirati nei vari ospedali cittadini e quelli deceduti nelle carceri. L’architetto scelse le pendici di una collina ad est del centro cittadino nominata “lo trivice” o “lo monte de lu trecco” per costruire la sua opera: il cimitero di Santa Maria del Popolo, comunemente noto come cimitero delle 366 fosse o cimitero dei tredici.
Il luogo fu scelto perché aveva precise caratteristiche: lontano ma non lontanissimo dalla città, sferzato costantemente da venti che spiravano in direzione opposta alla capitale (non si temeva solo il fetore della decomposizione ma soprattutto i presunti germi venefici derivanti da essa), favorito dall’esistenza sul luogo di una palude sottostante che avrebbe raccolto i fluidi corporei senza inquinare la falda acquifera. In meno di diciotto mesi Ferdinando Fuga consegnò al Regno il nuovo cimitero, ben 35 anni prima dell’Editto napoleonico di Saint Cloud (1804), che aboliva le sepolture nelle chiese e obbligava di inumare le salme in luogo deputato fuori dalle mura cittadine (un altro primato della città partenopea).
Il cimitero delle 366 fosse rappresenta un episodio unico nella storia dell’architettura: lontano dalle retoriche religiose, ci appare impersonale, rigorosamente matematico, un preciso, macabro calendario della morte. La struttura di forma quadrata, recintata in muratura, ospita un’unica sala destinata agli Uffici Religiosi (cappella) e agli Uffici Statistici (di tutti i 70.000 morti vennero annotati i nomi, la data e le cause della morte, il luogo preciso di inumazione). Il vasto cortile interno è suddiviso in una griglia di 19 file per 19 righe di fosse più altre cinque (oggi sparite a causa di un restauro ottocentesco) a formare il numero di 366. Ciascuna fossa ha la forma di un parallelepipedo rettangolo di 7 metri di profondità per 420 cm di lato. La sommità della fossa è chiusa da un tombino quadrato di piperno di 80 cm per lato, con su inciso un numero indicante il giorno dell’anno in cui poteva essere aperta e usata: elemento unico quindi che permetteva di gestire le sepolture in tutti gli anni a venire, anche in quelli bisestili. Una rivoluzionaria opera d’ingegneria a metà tra la struttura sanitaria e il centro di smaltimento. Semplice e complessa macchina funebre. Cessata l’emergenza sanitaria del Regno, il cimitero restò comunque in uso fino al 1890.
Le cronache dell’epoca ci raccontano di uno spettacolo macabro che andava in scena ogni giorno a partire dalle 18,30, orario in cui veniva aperta la botola d’accesso alla fossa e i morti venivano letteralmente buttati all’interno di essa, producendo un tonfo cupo di ossa che si spezzavano impattando col suolo. Molti visitatori del grand tour, in cerca di emozioni forti, andavano ad assistere all’operazione giornaliera dei necrofori. Il poeta e scrittore Renato Fucini (1843–1921) scrisse in proposito: “Vi sono impressioni che non si raccontano, ma si pensa e si tace perché la parola è insufficiente“. Allo spettacolo assistevano anche diversi sfaccendati che, come moderni aruspici, cercavano di “smorfiare numeri” da giocare al lotto, interpretando la dinamica della caduta della salma nel fosso o il rumore dell’osso che si fosse spezzato per primo. Questo osceno rituale fu interrotto solo quando, nel 1877, grazie alla donazione della moglie del console inglese a Napoli, il cimitero fu fornito di un particolare argano a vapore, progettato apposta per calare le salme nelle fosse in maniera più dignitosa e meno impietosa.
Come purtroppo spesso accade in questa città, le grandi opere sociali raccontate, hanno subìto una triste sorte. L’edificio dei Granili fu abbattuto nel 1958 perché fatiscente, il Real Albergo dei Poveri cerca ancora progetti seri di riqualificazione e nuove destinazioni d’uso. Il cimitero di Santa Maria del Popolo delle 366 fosse è chiuso al pubblico ed in stato di abbandono. La custodia e la manutenzione sono affidate alla famiglia De Gregorio ed alla loro impareggiabile pietà per i defunti. Come scriveva Petrarca nei Trionfi:
“Oh ciechi, e ‘l tanto affaticar che giova?
Tutti tornate alla gran madre antica,
e ‘l vostro nome a pena si ritrova”
(Petrarca, «Trionfo della morte», I, 88-90)