La serendipità, dall’inglese serendipity, indica l’occasione di fare felici scoperte per puro caso e, anche, il trovare una cosa non cercata e imprevista mentre se ne stava cercando un’altra. Questo è capitato al sottoscritto che, cercando un ufficio del Comune di Napoli, si è imbattuto in un vicolo ricco di storia e di folclore: Vico Rose a San Potito.
La stradina inizia quasi nascosta fra i palazzi in via Salvatore Tommasi (la vecchia via San Potito) e poi va dritto fino ad una terrazza panoramica affacciata sullo strapiombo delle antiche mura che degradano sul Cavone e piazza Dante: una spettacolare visione d’insieme sul centro storico della città.
Non esistono testimonianze certe per il toponimo di questa strada. Franco De Arcangelis, nella sua “Napoli Per Vie”, descrive questo borgo come «una stradina a suo modo molto pittoresca: antiche mura e rabberciati “bassi” tenuti con civetteria anche, e qua e là delle piante ed edicole di santi.»
Nel Quattrocento tutta l’area apparteneva alla famiglia Carafa; era una riserva di caccia di Alfonso II di Aragona e si estendeva, inerpicandosi sulla collina, fino a Castel Sant’Elmo. Si iniziò a costruire un borgo solo nel XVII secolo e, via via che la popolazione cresceva, nel secolo successivo nacque via San Potito come la conosciamo adesso, ricca cioè di palazzi nobiliari ed edifici di culto.
La particolare conformazione del Vico Rose è dovuta ad una disputa giudiziaria durata anni. La nobile famiglia dei Minei acquistò del terreno per fabbricarvi un palazzo, ma i chierici regolari del convento di San Giuseppe dei Nudi non volevano che la nuova costruzione poggiasse sulla loro proprietà. Lo stesso problema si verificò sull’altro confine con il convento di San Potito delle monache benedettine. Entrambi gli ordini ecclesiastici pretesero che il nuovo corpo dell’immobile lasciasse “una zona di rispetto” a difesa dei loro confini. Da ciò fu ideato il Vico Rose che, girando sull’intero perimetro del palazzo, creò una specie di zona franca. Questa soluzione salomonica soddisfece tutte le parti: i due conventi poterono affittare i bassi e i locali che davano su quella nuova stradina e lo stesso avvenne per i proprietari del futuro palazzo Minei. Ma la storia di questo piccolo pezzo di Napoli non finisce qui: il Vico Rose si popolò creando un borgo a se stante lontano dai frastuoni e dalla confusione delle vie vicine. Vi si insediò una comunità industriosa e morigerata (sia i Minei che i padri religiosi operarono un’attenta selezione degli affittuari).
Come nelle favole di Gian Battista Basile, un anonimo benefattore stabilì poi di concedere due volte all’anno un appannaggio di 15 ducati per la dote di una fanciulla da marito di quella comunità e, in caso di mancanza di matrimoni, una somma di 11 ducati da impiegare nello stesso borgo ad uso caritativo. Una targa di marmo, dove erano sancite le clausole dell‘atto, fu affissa all’ingresso del vicolo e ancora oggi fa bella mostra sul muro della strada a testimonianza dell’antico beneficio. Altri tempi, diversa tassonomia di valori.
Attualmente gli edifici ecclesiastici sono occupati dalla Legione dei Carabinieri e dal Comune e i “civettuoli bassi” del borgo delle Rose sono abitati per lo più da una laboriosa comunità. Forse ci sarebbe piaciuto che in una città come la nostra, dove ogni pietra ha la sua storia, tutt’altre destinazioni e diversa valorizzazione avessero avuto questi luoghi. Stupisce pensare che chi ci amministra sia riuscito ad investire, per il recupero della città antica, solo 15 dei 100 milioni di euro stanziati dall’Europa dopo il riconoscimento Unesco. Ma è un po’ il destino delle Città d’Arte: dove c’è abbondanza, si tende a sminuire per dimenticare, per non tutelare e, quindi, non fare … e poi ci lamentiamo che la città si fa periferia anche al centro e, soprattutto, ci meravigliamo che sorgono altarini blasfemi della camorra dove un tempo fiorivano rigogliose le rose.
Complimenti “se la città si fa periferia” il suo sguardo periferico ci ha ha dato una visione intima di Napoli.
Concetta Russo
Grazie signora Concetta, credo di condividere con lei la speranza che si faccia qualcosa di più per salvaguardare la nostra splendida Città.
Ci sono. Posti talmente belli, e tanti abbandonati… La bellezza arte, devono essere insegnati ai giovani che sanno solo i cellulari
C’è bisogno di stimolare culturalmente i giovani, e perchè no anche i bambini, occorre non solo parlare ma anche dare loro dimostrazioni della nostra “Grande Bellezza”
Ringraziamo il lettore Antonio Di Bernardo per l’acribia con la quale ha letto l’articolo del nostro Antonio Nacarlo. In particolare accogliamo l’invito del sig. Di Bernardo a modificare il nome della famiglia nobiliare, da Mineo a Minei, cui si deve la costruzione del palazzo circondato dal Vico Rose, anche se il sito di araldica napoletana cita il nome della famiglia in entrambe le accezioni: Famiglia Minei o Mineo (nobili-napoletani.it).