Ieri 19 marzo festa di San Giuseppe ma soprattutto dei papà. Tappa intermedia tra la festa della donna e la Santa Pasqua, ha rappresentato, come ogni anno, l’occasione consumistica, a mezzo zeppola, funzionale agli interessi imprenditoriali. Poco per volta il tragitto che porta dal Natale alla Pasqua è stato infatti trasformato in un continuum di celebrazioni a cui la popolazione partecipa in veste di acquirente di beni e servizi voluttuari. Come se non bastasse, la vendita dei “simboli” viene iniziata con largo anticipo: negli anni ’50 i panettoni comparivano nei negozi una decina di giorni prima delle festività mentre oggi i supermercati te li propongono agli inizi di dicembre. Giusto il tempo di consumarli, insieme alle tante altre specialità natalizie, si affaccia l’Epifania con calze, cioccolato, caramelle e dolcezze varie, ma soprattutto col complemento alla caterva di doni natalizi “scartati” a Natale sotto l’albero.
Tempo dieci giorni e si avanzano chiacchiere, sanguinacci e tutto quanto riguarda il Carnevale nel quale prevalgono comunque le spese per i costumi dei bambini e degli adulti che organizzavano, quando si potevano fare, i veglioni in maschera. Nei paraggi del martedì grasso si aggira poi, irrequieto, San Valentino che, ignorando la circostanza tragica della strage consumata a Chicago nel 1929 da Al Capone, dispensa baci, bacetti, cuori e cuoricini anche nella sfera di rapporti di coppia ormai esausti se non addirittura insofferenti.
Giusto prima della Pasqua, alta o bassa che sia, si colloca la sacrosanta “festa delle donne” accolta con particolare entusiasmo dai ristoratori di ambo i sessi perché le celebrazioni si concretizzano in cene consumate rigorosamente tra sole donne in modo da assaporarne tutta la carica liberatoria. Ma intanto avanza maestosa, giorno dopo giorno, la Santa Pasqua che, quanto a consumi alimentari, se la gioca ad armi pari col Natale: agnello, “fellata”, casatiello, pastiera, colomba e uova di cioccolato reggono il confronto con vongole, capitone (facoltativo) frutta secca, cassate, cassatine, roccocò, “mustacciuoli”, panettoni e pandori. Ma la Pasqua (non “Mala Pasqua”, quella augurata a Turiddu nella Cavalleria Rusticana, che è cosa diversa) non esaurisce gli appetiti primaverili della produzione di beni superflui: c’è la festa della mamma a completare il ciclo dell’arco consumistico dedicato alla famiglia.
Per il momento sono rimaste indolori le feste civili tra le quali solo la festa dei lavoratori poteva, in tempi normali, comportare un pranzo tra compagni o colleghi di lavoro sindacalizzati, cosa oggi resa difficile dalla carenza di lavoratori sindacalizzati e di lavoratori in generale, più che dalla pandemia. Le altre feste civili (25 aprile e 2 giugno) non hanno suscitato ancora l’interesse dell’industria dello svago e dei consumi alimentari, ma prima o poi qualcuno ci penserà.
Nei mesi estivi non ci sono festività perché non ce n’è bisogno: i consumi voluttuari sono comunque elevati e distribuiti lungo almeno due mesi. Ogni intrusione sarebbe superflua: lo stesso ferragosto, festa dell’Assunzione, darà spazio al massimo a una “braciata” collettiva nel villaggio vacanze o poco più. Passate le vacanze cosa può fare la macchina consumistica per non interrompersi fino all’ostensione dei panettoni per quanto anticipata possa essere? Per il momento si è inventata la festa dei nonni che cade il 2 ottobre e che trova già cadenti molti di loro. Ma è poca cosa: i nonni non possono, fisiologicamente, partecipare al turbine consumistico e rappresentano quindi una platea di destinatari piuttosto esigua, inadeguata agli interessi della produzione.
C’è quindi da attendersi l’istituzione di ulteriori festività. La prima che può venire in mente è quella degli zii che sono tanti: ci sono più zii che genitori. Non tutti sono simpatici ai nipoti ma bene o male un piccolo regalino bisogna farlo a tutti. La festa dei cugini sembra più improbabile perché la maggior parte dei cugini è di giovane età e quindi di scarse risorse. Della festa dei cognati non se ne parla proprio: spesso tra loro non corre buon sangue. Specie qui da noi, a Napoli, la cosa non andrebbe affatto bene: la forma dialettale di “mio cognato”, “cainatemo”, evoca la figura omicida di Caino.