Un famoso film del 2007, Into the Wild, diretto da Sean Penn e basato sull’omonimo libro di Jon Krakauer, racconta la storia vera di Christopher McCandless, un giovane statunitense che, terminati gli studi, decise di cambiare stile di vita mettendosi in viaggio, rifiutando ogni imposizione della società nordamericana e viaggiando e vivendo con poco o nulla. Christopher portò all’estremo il suo senso di libertà e solitudine tanto da morire nelle inospitali terre dell’Alaska a causa di una intossicazione alimentare, ma prima di morire incise su un pezzo di legno questa frase: “la felicità è reale solo se condivisa”. McCandless non sapeva che la sua vita sarebbe divenuta d’ispirazione per tantissimi giovani viaggiatori, le sue gesta di girovagare e vivere in maniera minimalista sono state abbracciate da intere generazioni; ma Alexander Supertramp (il suo pseudonimo) sapeva anche che l’uomo è un animale sociale e che la sua felicità deriva dalle interazioni reali che ha nei confronti dell’altro.
Sono passati anni dall’uscita del film Into the wild, i tempi sono totalmente cambiati e il covid-19 ci ha costretti a rivedere il nostro concetto di vita, ci ha spiazzati dinnanzi alla morte sbattuta in faccia dai media che, più di informare e raccontare, hanno superato il limite, terrorizzandoci dapprima con le immagini delle bare di Bergamo che venivano trasportate dai camion dei militari e poi con un susseguirsi incessante di video in cui la sofferenza fa da padrona. Non si responsabilizza una popolazione, terrorizzandola. Siamo costretti giorno dopo giorno a limitare il nostro concetto d’interazione con l’altro, evitiamo di vedere troppe persone, scappiamo al rumore di uno starnuto, nascondiamo i nostri sorrisi con le mascherine, ci salutiamo con il gomito, evitiamo da almeno un anno abbracci e baci con chiunque incontriamo, tutto tristemente necessario. Ma chi ci garantisce che una volta terminato tutto torneremo con scioltezza ad essere quelli di un tempo?
Attualmente la propaganda mondiale è focalizzata sul far rispettare le norme anti-virus, con ogni mezzo necessario, ma pochi si preoccupano del “ritorno alla normalità”. Ma soprattutto chi si sta preoccupando dei disturbi psicologici a breve e lungo termine? La popolazione mondiale nell’ultimo anno ha ascoltato esclusivamente questa parola: isolamento. Ognuno, rinchiuso tra le proprie 4 mura, si trova costretto a delegare allo schermo di uno smartphone emozioni e sensazioni che dal vivo hanno tutt’altro sapore. Il virus inoltre ci ha portato a guardare l’altro con diffidenza e paura, una situazione forse vissuta solo dalle generazioni passate durante o alla fine della seconda guerra mondiale. Come spiega la dott.ssa Maria Rosaria Rapolla, Responsabile di Psicogeriatria del Centro Sant’Ambrogio Fatebenefratelli: “Oltre ad ansia, depressione e stress cronico, è stato evidenziato un altro rischio derivato dai mesi di isolamento forzato: i cosiddetti disturbi agorafobici. L’agorafobia è una patologia che comprende la paura paralizzante di stare negli spazi aperti o affollati, impedendo alla persona di compiere le più semplici e banali attività quotidiane”. Ed è sulla base di questi elementi che molti hanno il timore che la socialità, l’affettuosità di un tempo difficilmente riusciranno a tornare tra le nostre piazze, nelle nostre strade. Per andare in questa direzione abbiamo bisogno che nell’agenda politica sia inserito anche questo punto: il ritorno alla socialità; abbiamo la necessità che intere schiere di psicologi si rivolgano nuovamente ai giovani e agli anziani (le fasce più colpite) per aiutarli a tornare alla normalità; in questo senso lo Stato può agire fortemente, magari utilizzando la stessa campagna mediatica con cui ha allertato, questa volta però per infondere fiducia. Siamo stati abili o forse siamo stati semplicemente costretti a trasferire la nostra socialità nel mondo virtuale; ad un anno dall’inizio della pandemia abbiamo però l’imperativo di ritornare a pensare in che modo riavvicinarci. Banale e semplicistico è credere che tutto possa risolversi con il vaccino, la situazione attuale ce lo dimostra: sono pochissimi gli Stati che hanno vaccinato intere popolazioni, forse nessuno al momento ha raggiunto l’immunità di gregge; e allora cosa fare? Aspettare altri due anni prima di tornare ad abbracciarci, ridere e festeggiare tutti insieme? Forse è arrivato il momento di inventarsi qualcos’altro in attesa che quest’incubo finisca.