Un triste retaggio

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Philippe de Champaigne, Mosè presenta le Tavole della Legge, Milwaukee Art Museum (Fonte: Wikimedia Commons)

Cos’hanno in comune Alan Turing, una delle menti scientifiche più brillanti della prima metà del secolo XX, e Oscar Wilde, il famoso drammaturgo inglese della seconda metà del XIX? A parte la loro genialità e l’esser morti giovani, il primo suicida a 42 anni e il secondo a 46, entrambi questi personaggi furono accomunati da quella che, al loro tempo, era una tragedia: erano entrambi omosessuali. Nonostante a Turing si dovesse eterna riconoscenza per aver contribuito in modo determinante alla sconfitta delle armate tedesche con il suo lavoro di decrittatore, e a Wilde per averci lasciato indimenticabili opere teatrali, entrambi dovettero subire l’onta del carcere in quanto questa era la pena che in Inghilterra veniva comminata fino al 1967 a chi si era reso colpevole del “reato” di gross public indecency, che nel XVI secolo era punito con la pena di morte.

Un paese, la Gran Bretagna, che si era sempre vantato di essere alfiere dei diritti civili e della libertà d’opinione, patria di grandi giornali e di menti politiche illustri, era ancora asservito a norme e regole risalenti a quattromila anni prima, per essere precisi alla legislazione mosaica contenuta nel libro del Levitico: “Non ti coricherai con un uomo come si fa con una donna: è cosa abominevole. Non rendetevi impuri con nessuna di tali pratiche, poiché con tutte queste cose si sono rese impure le nazioni che io sto per scacciare davanti a voi. Chiunque praticherà qualcuna di queste abominazioni, ogni persona che le commetterà, sarà eliminata dal suo popolo”. L’Inghilterra, ma non solo essa, insieme a tutte le nazioni “cristiane” di quel tempo, specialmente quelle di fede protestante, considerava il testo biblico come la norma suprema a cui attenersi per ogni aspetto della vita quotidiana; fatto, questo, che nelle colonie britanniche del Nord America ebbe come risultato il cosiddetto “puritanesimo” che ancora oggi impera nella “Bible belt” degli Stati Uniti meridionali, con il risultato di un’arretratezza culturale e di una chiusura mentale che continuano a caratterizzare quelle popolazioni. Non per nulla è a loro che si deve principalmente l’elezione di Donald Trump a presidente degli Stati Uniti.

Né l’avvento del Cristianesimo modificò un granché l’ordine delle cose. Se gettiamo uno sguardo al più grande personaggio della nuova fede, Paolo di Tarso, considerato il vero fondatore del Cristianesimo, troviamo che egli, senza mezzi termini, nella sua lettera ai Colossesi così si esprime: Non sapete che gli ingiusti non erediteranno il Regno di Dio? Non ingannatevi! Né gli impuri, né gli idolatri, né gli adulteri, né gli effeminati (malakoi), né gli omosessuali (arsenokoitai), né i ladri, né gli avari… erediteranno il Regno di Dio”.

L’omosessualità era quindi posta alla stregua di gravi trasgressioni come l’idolatria, il ladrocinio e turpi malversazioni, come lo stesso apostolo ribadisce nella sua lettera ai Romani: “Per questo Dio li abbandonò a passioni infami, le loro donne cambiarono le relazioni naturali con altre contro natura; ugualmente gli uomini, abbandonando il rapporto naturale con la donna, furono presi da desiderio gli uni per gli altri, commettendo l’infamia di uomo con uomo, ricevendo su di sé la meritata paga per il loro traviamento”. Quindi, in base a norme stabilite ovviamente da nessun dio, ma semplicemente da uomini di quaranta secoli fa, fino a poco tempo fa, precetti arcaici e disumani condizionavano la vita delle persone del cosiddetto mondo civilizzato. È evidente che l’attuale Pontefice non debba essere un particolare estimatore di San Paolo, se soltanto ricordiamo come rispose a una domanda sui gay con le parole: “Se una persona è gay e cerca il Signore e ha buona volontà, chi sono io per giudicarla?” Parole illuminate che, però, per molti vetero cattolici, e non solo, suonarono come blasfeme.

E pensare che, ancor prima di Mosè, al tempo dello Zoroastrismo, l’essere omosessuali non era considerato un disonore se il più grande eroe di una delle grandi epopee, quella di Gilgamesh, riporta le parole del grande guerriero che dice, parlando di Enkidu, suo grande amico: “Io lo abbracciai forte, lo amai come una moglie”. Lo stesso discorso vale per Achille, il più grande eroe dell’antica Grecia e del suo rapporto con Patroclo, mostrando così che le cosiddette Sacre Scritture non erano ispirate da dio ma dagli uomini, e che seguivano il corso della storia e degli eventi, come tutte le cose umane.

Un altro retaggio angosciante, che proviene direttamente da uno dei brani più noti e importanti della Bibbia ebraica, è collegato con il decimo comandamento, che testualmente recita: “Non desiderare la casa del tuo prossimo; non desiderare la moglie del tuo prossimo, né il suo servo, né la sua serva, né il suo bue, né il suo asino, né cosa alcuna del tuo prossimo”. Nell’attento lettore di queste parole, “scolpite per i secoli avvenire sulla pietra”, non può non sorgere un sentimento di stupore, in quanto abituato alla lettura del decimo comandamento nella versione manipolata della chiesa cattolica, riteneva che esso dicesse soltanto: “Non desiderare la moglie del tuo prossimo”, scoprendo, adesso, che la moglie, come il bue e l’asino era considerata semplicemente una proprietà maschile, un attrezzo di lavoro. La bassa considerazione della donna nella Bibbia non si esaurisce con l’Antico Testamento, perché anche nel Nuovo, sempre per mano dell’ineffabile Paolo che scrive a Timoteo, troviamo che: “La donna impari in silenzio, in piena sottomissione. Non permetto alla donna di insegnare né di dominare sull’uomo; rimanga piuttosto in atteggiamento tranquillo. Perché prima è stato formato Adamo e poi Eva; e non Adamo fu ingannato, ma chi si rese colpevole di trasgressione fu la donna, che si lasciò sedurre”. Concetto ribadito ai Corinti: “L’uomo non deve coprirsi il capo [nelle assemblee], poiché egli è immagine e gloria di Dio; la donna invece è gloria dell’uomo. E infatti non l’uomo deriva dalla donna, ma la donna dall’uomo; né l’uomo fu creato per la donna, ma la donna per l’uomo. Per questo la donna deve portare sul capo un segno della sua dipendenza a motivo degli angeli”.

Come meravigliarsi, quindi, se in nazioni profondamente cristianizzate, quali sono quelle che compongono il cosiddetto “occidente”, la condizione della donna sia stata, e spesso sia ancora, ancillare, tanto che lo stesso Sommo Poeta, parlando della sua giovane Beatrice, la descrisse come “gentilmente d’umiltà vestuta”. La donna deve stare in silenzio, dev’essere umile, sottomessa, non può correggere l’uomo, lo deve servire come lo servono l’asino o il bue. È vero che le cose sono notevolmente cambiate dai tempi di Mosè, di Dante e dei Padri pellegrini, ma è anche vero che un retaggio così profondamente radicato richiede molto tempo per svanire del tutto. A meno che non si presenti un altro Mosè con nuove tavole della legge, magari scritte su un tablet!

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