Non è vero che gli intellettuali si limitano solo ad interpretare il mondo, perché ogni interpretazione trova sempre un riscontro nel mondo dell’azione; si pensi, ad esempio, al rapporto tra gli Enciclopedisti e la Rivoluzione francese. La risposta che i veri intellettuali hanno dato alla politica è stata sempre quella di un’opposizione morale alle ingiuste ragioni della forza, della violenza del potere. Come scriveva dall’esilio lo storico Gaetano Salvemini, «Noi non possiamo essere imparziali. Possiamo essere soltanto intellettualmente onesti: cioè renderci conto delle nostre passioni, tenerci in guardia contro di esse e mettere in guardia i nostri lettori contro i pericoli della nostra parzialità. L’imparzialità è un sogno, la probità è un dovere.» Gli intellettuali autentici sono animati, quindi, da onestà morale, correttezza, devozione alla verità, profonda passione etica.
Invece, i mestieranti della cultura restano in vile silenzio dinanzi al potere politico, sono opportunisti organici a questo potere; li si riconosce grazie alle loro risposte confezionate a misura del potere in carica; pur di conservare una posizione, sono disposti a qualsiasi bassezza morale, a sostenere qualsiasi regime. Costoro s’industriano nel tessere relazioni amicali con i politici al potere al fine di farsi pubblicare e recensire le loro opere; sono tanto presi dall’impegno di crearsi un “pubblico” che diventano insensibili all’ascolto, si astengono dal porgere l’orecchio al di fuori del loro “orticello”. L’istinto di autoconservazione li rende ciechi al mondo circostante; manifestano formale sensibilità a temi come la solidarietà e il pacifismo, ma non vanno oltre le belle parole di circostanza. Costoro trascurano che i valori autentici non sono quelli ispirati da un’ideologia dominante, ma quelli derivanti da una visione del mondo in cui sia centrale la dignità umana. Al riguardo è significativa la vicenda di Piero Calamandrei, insigne giurista, il quale nel 1931, per mantenere la cattedra universitaria, giurò fedeltà al regime fascista; Calamandrei firmò perché considerava l’insegnamento “il suo posto di combattimento”, ma quella sottomissione – come scrisse in seguito – gli costò “l’animo straziato”; successivamente si dimise da professore universitario per non sottoscrivere una lettera di sottomissione al duce, che gli venne chiesta dal rettore dell’Università di Firenze del tempo. Non a caso, in un’occasione ebbe a dire: «La libertà è come l’aria: ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare».
L’intesa tra i mestieranti della cultura e certi politici emerge anche in relazione all’impostazione di palinsesti televisivi sostanzialmente amorali perché finalizzati a dimostrare che il “vuoto” sia “pieno” e che il nulla abbia lo stesso valore dell’essere; così facendo, si conducono le masse nelle praterie della stupidità, nell’abisso delle banalità, delle chiacchiere inutili, del non pensiero. È l’ideologia dominante con la quale vengono allevate le masse che rappresenta un insidioso pericolo per la civiltà. E i mestieranti della cultura sono sempre pronti a piegare ogni evidenza all’ideologia cui sono asserviti.
Un esempio può servire a marcare la distanza tra i veri intellettuali e i mestieranti della cultura. Nel 1953 Anna Maria Ortese (1914–1998) pubblicò una raccolta di racconti, intitolata Il mare non bagna Napoli. Il primo racconto, “Un paio di occhiali”, narra la storia di Eugenia, una bambina mezza cieca residente in uno dei tanti quartieri poveri della città partenopea. Al termine del racconto Eugenia riesce ad avere i tanto desiderati occhiali ma, a differenza delle sue aspettative, col miglioramento della vista la ragazzina, invece di esultare, “si piega in due e, lamentandosi, vomita”; perché? Grazie alle lenti vede distintamente la realtà che la circonda: “gli archi dei terranei, neri, coi lumi brillanti a cerchio intorno all’Addolorata; il selciato bianco di acqua saponata, le foglie di cavolo, i pezzi di carta, i rifiuti, e, in mezzo al cortile, quel gruppo di cristiani cenciosi e deformi, coi visi butterati dalla miseria e dalla rassegnazione”. Quindi la Ortese descrive il dolore strisciante tra le strade e i vicoli malfamati; narra la verità di quanto la circondava e solo chi si interessa sinceramente del prossimo e ha a cuore il loro bene è capace di raccontare la verità e di provare empatia per le sofferenze altrui. La raccolta ottenne nel 1953 il Premio Speciale Viareggio per la narrativa. Dopo questa raccolta di racconti iniziò per la scrittrice un periodo molto sofferto e problematico, di emarginazione e di strisciante ostracismo, a causa delle sue posizioni critiche nei confronti del mondo intellettuale e culturale dell’Italia dell’epoca. L’intento della Ortese non era denigratorio, come testimonia la Guida alla lettura pubblicata nell’ultima edizione Adelphi del testo del 1994; come ha fatto notare Battista Amodeo, tale polemica fu condotta dai poteri politici dell’epoca e dagli intellettuali che li sostenevano: «[…] sono stati soprattutto i politici, in un periodo tra i più oscuri dell’amministrazione della città, fatta di voti di scambio, di un uso corrotto e improprio del potere e del danaro».
Compito dei veri intellettuali non è inventare ad ogni costo qualcosa di nuovo, ma può anche essere quello di attualizzare, riscoprire quanto è stato dimenticato. Per gli intellettuali autentici interpretare la realtà è già un agire, capire viene prima di obbedire.