Il Festival del cinema dei diritti umani di Napoli non smette di regalarci spunti interessanti e storie dal mondo che, se non fosse per la settima arte, resterebbero sconosciute. Tra i temi affrontati nei giorni scorsi, il 18 novembre c’è stato uno spazio latinoamericano intitolato: “continuità della violenza e della resistenza”. Tra i tanti ospiti intervistati c’era anche Javier Diment, il regista argentino che ha partecipato al festival con la sua opera fuori concorso: La Feliz, Continuidades de la violencia, un’opera di taglio giornalistico, cruda e senza filtri, che analizza la violenza dell’estrema destra argentina in quel luogo del Paese che viene chiamato: la Feliz.
Ma cos’è esattamente il documentario “la feliz” e quale messaggio intende trasmetterci? La Feliz si riferisce a Mar del Plata, una città che sorge lungo la costa atlantica argentina. Conosciuta come città felice, Mar del Plata è da sempre il classico luogo di villeggiatura, che milioni di argentini ma anche tantissimi europei negli anni hanno scelto come posto per trascorrere le vacanze in tranquillità, lontani dallo stress delle grandi città. Specialmente in passato Mar del Plata era stata l’epicentro di una classe medio-alta che provava a ispirarsi alle città europee attraverso stili di vita sfarzosi o quanto meno agiati.
Su questa premessa l’opera di Diment è geniale se non addirittura rivoluzionaria non perché provi a mostrare qualcosa di sconosciuto, piuttosto perché si prefigge l’obbiettivo di distruggere quella falsa immagine de La Feliz. Partendo infatti dai giorni nostri, il regista trova una connessione con l’attuale espansione dell’estrema destra a Mar del Plata, specificando come questi movimenti abbiano delle radici profonde nelle vicende degli anni ‘70. Una continuità fatta di violenza e brutalità che non è mai terminata. Il regista non omette infatti scene attuali di attivisti di sinistra o appartenenti alla comunità LGBTQ che vengono massacrati di botte da ragazzi appartenenti a gruppi fascisti o in alcuni casi di ispirazione nazista. Il documentario procede da un’intervista a un’intervista, partendo dall’assassinio di Silvia Fuller, una studentessa della facoltà di Architettura, uccisa il 6 dicembre 1971 dai membri del CNU (Concentración Nacional Universitaria), gruppo paramilitare di ispirazione nazifascista. Il suo carnefice è stato processato solo pochi anni fa per “associazione illecita”. E forse di questa continuità parla Diment, che analizza come molti di quei carnefici siano ancora impuniti o processati per reati minori rispetto a quelli commessi. Successivamente la narrazione affronta la dolorosa notte argentina ricordata come “la noche de las corbatas” del 1977, in cui un gruppo di avvocati insieme a propri familiari furono sequestrati, torturati, violentati e uccisi dai militari argentini. L’unica che riuscì a mettersi in salvo fu Marta García Candelero. Nel documentario infatti la sua testimonianza rappresenta un vero e proprio pugno allo stomaco. Lo spettatore ascolta con rabbia e frustrazione le parole di chi nonostante tutto è riuscita ad andare avanti, senza però mai dimenticare quegli istanti terribili. Nell’opera non mancano le testimonianze anche della “controparte”, ovvero di chi rivendica le violenze perpetuate come quelle dei militari o dei gruppi armati appartenenti al CNU. Un esempio ci viene fornito dalle parole di Carlos Pampillón, líder del “Foro Nacional Patriótico”, referente dell’estrema destra. Quando Pampillon afferma che: “il lavoro dei militari è stato fin troppo magnanimo”, è inevitabile che lo spettatore non dovrà scegliere da che parte stare, bensì dovrà trattenersi davanti allo schermo per digerire quelle parole assassine. “La Feliz” così si colloca nel panorama mondiale come opera storica per comprendere meglio i fenomeni dell’estrema destra e in Argentina come un documentario da cui partire per poter fare i conti con il proprio passato.