Quando l’arte diventa un enigma

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Jago, Look-down, (Fonte: https://jago.art/it/opere/)

Diciamoci la verità: l’arte contemporanea, ed in particolare quella figurativa, ci lascia spesso perplessi. Prendiamo, ad esempio, la recentissima scultura di Jago, artista italiano ma di fama internazionale, un neonato in marmo bianco adagiato sul manto stradale di Piazza del Plebiscito e rivolto verso Palazzo Reale. Da un articolo di Repubblica del 6 novembre, a firma Concita Sannino, apprendiamo che l’autore aveva dato alla sua opera il titolo di “Lock-down” con riferimento alle sofferenze legate alla più drastica delle misure restrittive assunte per fermare il Covid. Nell’articolo Jago ci spiega che nel sistemare il suo lavoro qui a Napoli per il periodo natalizio gli è poi piaciuta l’idea di modificare il titolo in “Look-down”, denominazione che però non aiuta la comprensione dell’opera: guardare giù, giù dove? Con questo nome l’opera acquista un diverso significato, più oscuro di quello pensato in precedenza. L’uso dell’espressione “pensato in precedenza” invece che “originario” non è casuale in quanto la denominazione originaria, “homeless”, era dedicata ai senzatetto di New York. Altro nome, altro significato e forse altra reazione emotiva anche nell’osservatore non sprovveduto.

Questi mutamenti di nome e di significato ci dicono molte cose. La prima è che l’oggetto concepito e realizzato dall’autore può essere da lui stesso adattato alle più varie finalità. La seconda è che la stessa opera può essere inserita, installata, in contesti diversi dando luogo di volta in volta ad interpretazioni diverse. E quindi la Sannino vede in questo “neonato di pietra, nudo, rannicchiato e in sofferenza …. l’umanità più fragile sotto la scure del virus”, aggiungendo poi che è una performance “poetica e politica più che un evento”. Naturalmente nessuno dubita che l’impressione suscitata dal neonato di marmo nell’autrice dell’articolo sia esattamente quella raccontata ai lettori, ma è pur vero che altri osservatori possono guardarla con occhi e sensibilità diverse.

D’altra parte è lo stesso Autore che riconosce come “in questo bimbo che guarda in basso, guarda agli ultimi… ciascuno ci leggerà ciò che vede”. E quindi se vogliamo raccogliere l’invito di Jago, gli ultimi cui guarda il bimbo saranno forse identificati da qualche napoletano in coloro che più soffrono gli effetti della pandemia mentre a New York qualcuno vi vedrà riflessi gli “homeless, vecchi, poveri e grigi”. Il noto giallista napoletano Maurizio De Giovanni individua gli ultimi “negli immigrati e nei tanti, troppi che lavorano a Napoli nel sommerso”.

Ma poi, siamo sicuri che il bimbo guardi in basso? A osservarlo sembra più che guarderebbe verso l’alto, se avesse gli occhi aperti? E quindi l’ancoraggio di questa scultura all’idea ispiratrice dello “sguardo verso gli ultimi” sarà percepito? Mettiamoci nei panni di un passante, anche di media cultura, il quale vede questo grosso neonato rivolto verso il Palazzo Reale e, girandoci intorno, scopre che ha gli occhi chiusi e una catena che parte dall’ombelico a mo’ di cordone ombelicale. Se non conosce il titolo dell’opera sarà colto certamente da un senso di inquietudine e non troverà alcuna facile chiave di lettura: forse penserà a qualcosa che abbia a che fare con la nascita, con la maternità, con l’abbandono, ma difficilmente coglierà il messaggio dello “sguardo verso gli ultimi”. E naturalmente il bimbo di Jago non è la prima né sarà l’ultima di queste enigmatiche testimonianze artistiche: le stesse osservazioni possono infatti valere anche per la ”Montagna di Sale” riprodotta  da Mimmo Paladino, sempre in Piazza del Plebiscito, nel 1995 e per gli “Spiriti di madreperla” di Rebecca Horn, installazione del dicembre 2002 costituita da 333 teschi in ghisa conficcati nella pavimentazione della medesima piazza ed in parte trafugati dai nostri concittadini più scaramantici e intraprendenti, che li avevano considerati dei portafortuna, alla stregua di quelli esposti al cimitero delle Fontanelle.

In realtà l’arte contemporanea, non solo figurativa, sembra aver perso il contatto emotivo che aveva in passato con i suoi fruitori. Si è sempre più piegata su sé stessa diventando poco a poco un discorso comprensibile solo alla ristretta cerchia dagli artisti stessi e dei critici d’arte. La ricerca dell’originalità, di uno stile personale sono ovviamente più che giustificati perché intrinseci all’attività artistica. Non si dubita quindi dell’autenticità dell’ispirazione che dà vita ad un’opera né all’onestà dei critici professionisti. Sorprende se mai l’entusiasmo di chi, fuori della cerchia, ha dovuto attendere spiegazioni dagli uni o dagli altri per comprendere il significato di un quadro, di una scultura, di un brano musicale. 

Questo percorso di progressivo distacco ebbe inizio con le avanguardie del primo Novecento, con la musica dodecafonica e seriale e, in pittura, col simbolismo e soprattutto con l’astrattismo: un quadro astratto, cioè senza alcun oggetto riconoscibile, costituito da pure geometrie e dal titolo “Composizione n.4” non emoziona nessuno e può suscitare al massimo l’apprezzamento per il coraggio di un gesto di rottura col passato. Il che costituisce una semplice intrusione intellettuale nella spontaneità propria dell’arte. Ecco, gran parte dell’arte del Novecento è segnata dalla volontà di metterne in crisi il concetto consolidatosi nei secoli. Lo stesso Picasso era già incomprensibile ai più quando cominciò ad articolare le sue opere in linee stilizzate, per non dire poi della Pop-art e via dicendo. D’altra parte già nel 1950 Fontana, sfregiando la tela con tre o quattro tagli, sanciva la fine dell’arte figurativa racchiusa nello spazio di un quadro: oggi forse la pittura mantiene un valore artistico solo nei murales dell’Urban art, quando non si riduce a semplice effettismo. Ma qui il discorso diventa più complesso e dunque lasciamolo in sospeso.

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