A urne chiuse sembra che tutti i contendenti abbiano riportato una qualche vittoria. Cominciamo dal Partito Democratico (PD), accreditato dai più come vero vincitore di questa tornata elettorale. Sommando i voti ottenuti nelle sei Regioni a statuto ordinario in cui si è votato, il PD si propone come prima forza politica italiana; tuttavia, ragionando in questi termini, si dimentica che la sconfitta nelle Marche, di per sé, impedisce di usare il termine “vittoria”; al massimo, la tenuta in Campania, Puglia e Toscana si può configurare come uno scampato pericolo di crollo, anche se non va sottaciuto un lieve ma costante recupero generalizzato di consensi tra gli elettori. Inoltre, in Campania, dove la lista PD (16,9%) ha superato la lista De Luca (13,3%), per effetto della pletora di liste pro Governatore, il PD si è visto dimezzare il numero dei propri consiglieri.
In casa Lega la portata del trionfo di Zaia (76,79% dei voti) pone un problema: è alquanto pretenzioso sostenere che il 44,57% dei voti rastrellati dalla lista Zaia e il 16,92% dei voti assegnati alla Lega–Salvini siano tutti di elettori leghisti; quindi il rieletto Governatore raccoglie un consenso più che doppio rispetto a quello portato in dote dalla lista di Salvini. In termini di leadership all’interno della Lega, questo fatto non contribuisce a far dormire sonni tranquilli al deluso Salvini, che comunque cita il consenso raggiunto dalla Lega in Toscana (21,78%) e Valle d’Aosta (23,9%) e il successo nelle due suppletive per dirsi soddisfatto dell’esito complessivo delle elezioni. Resta il fatto che, con riferimento alle Regioni in cui si è votato, la Lega ha guadagnato circa un 4% di consensi in più rispetto alle Regionali 2015; per giunta sono aumentati complessivamente i consiglieri regionali eletti con la Lega.
Sul fronte del Movimento 5 Stelle (M5S) non è sfuggito ad alcun analista l’ennesimo tracollo elettorale, ammesso perfino dal presidente della Camera, Roberto Fico, con un candore disarmante: rispetto alle Regionali 2015 il consenso per il M5S si è più che dimezzato. La scelta di correre da soli nelle regionali non è servita a garantire un recupero identitario da parte dei sostenitori del Movimento, neanche in Liguria dove si era trovata una convergenza con il PD su un candidato unico. Il consenso è evaporato: in Campania (9,93%), in Puglia (9,86%), nelle Marche (8,62%), in Liguria (7,78%), in Toscana (6,4%), in Valle d’Aosta (3,91%), in Veneto (3,25%). Nonostante questa Caporetto, l’esito del referendum è bastato a Di Maio per fargli esprimere soddisfazione per un risultato perseguito coerentemente dal M5S, trascurando però che il “sì” partiva da un consenso parlamentare trasversale del 97% e aveva l’appoggio ufficiale del PD, della Lega, di Fratelli d’Italia (FdI) e di Forza Italia (FI). Per giunta circa un terzo dei votanti (30,36%) si è espresso in modo contrario alle indicazioni della maggioranza dei partiti; quindi il risultato non può ascriversi alla categoria degli eventi “storici”. Ora il M5S, se vuole continuare la sua esperienza di governo, si trova di fronte alla necessità di tacitare definitivamente le velleitarie pretese dell’ala populista del Movimento.
Meloni con FdI ha gioito per la conquista della presidenza della regione Marche, trascurando la battuta d’arresto di Fitto in Puglia, dato già per vincente alla vigilia del voto. Sta di fatto che FdI è cresciuto un po’ dovunque, insidiando così la leadership salviniana nel centrodestra.
Il partito Italia Viva (IV) di Renzi, nato un anno fa dalla separazione col PD, non è stato determinante neanche in Toscana dove la lista (peraltro congiunta con +Europa) ha ottenuto solo il 4,48% dei voti, ininfluente ai fini dell’elezione del candidato Giani, peraltro inizialmente indicato dallo stesso Renzi. Per non dire dello 0,6%, raccolto in Veneto dalla candidata di IV, del 2,41 del candidato in Liguria e del 3,17% del candidato nelle Marche. Né ha giovato a IV il risultato dell’1,6% in Puglia del candidato Scalfarotto (sostenuto da Renzi e Calenda), che avrebbe dovuto svolgere la funzione di bastone tra le ruote del carro di Emiliano, riconfermato governatore. Paradossalmente il partito di Renzi è andato meglio in Valle d’Aosta (con l’8,87% dei voti raccolti con la lista Alliance Valdotaine e Stella Alpina) e in Campania dove, con il 7,37% dei voti, ha contribuito alla riconferma di De Luca, attorno al quale – per usare le parole del rieletto Governatore – si sono coalizzate forze “progressiste, ma anche di una destra moderata, non ideologica”; forse in quest’ultimo contesto bisogna ricercare la vera natura di IV?
Nella tornata elettorale appena trascorsa FI ha registrato un’inesorabile flessione; i principali esponenti del Partito hanno giustificato questa débacle generalizzata con il mancato apporto diretto e personale del presidente Berlusconi alla campagna elettorale a causa dei malanni che lo hanno colpito; eppure, neanche in Liguria il risultato di FI è andato oltre il 5,27% rispetto al 22,61% ottenuto dalla lista Toti Presidente.
E ora? I cittadini aspettano questi politici “sempre vincenti” alla prova dei fatti: riforme di alto profilo sulla scia del Recovery Fund, raccomandate dal Quirinale; il varo di leggi in grado di completare organicamente la riforma del Parlamento iniziata con la riduzione del numero dei seggi (ridefinizione dei collegi elettorali, nuova legge elettorale, superamento del bicameralismo perfetto, modifica dei regolamenti parlamentari); l’adozione del MES; modifica dei “decreti sicurezza”. Altrimenti, come ha scritto Giuseppe Capuano, “la vera sfida [dovrà] ancora cominciare: costruire una nuova classe dirigente in grado di spendere bene i miliardi di euro resi disponibili dalle scelte del Governo e della Comunità europea”.
E’ un classico! Alla fine hanno vinto tutti, perfino Renzi!