Quando si raggiunge una certa età, coincidente più o meno col pensionamento, spesso si comincia a prendere le distanze dall’epoca in cui si vive. Sarà forse perché ci si sente ormai fuori dalla cosiddetta vita attiva o forse perché si ha più tempo per riflettere, per soffermare lo sguardo e il pensiero su fatti, comportamenti, sentimenti ai quali non si era data importanza. Ci si accorge di quante delle cose che ci circondano non erano neppure pensabili quando si era più giovani.
E fatalmente iniziano i confronti. Il risultato dei quali è quasi sempre severo nei riguardi del presente. Riusciamo certamente a riconoscere gli innegabili passi avanti fatti nel campo delle “comodità”: schermi televisivi giganti che, guardati da una distanza di tre metri, fanno impallidire quelli del cinema. Non parliamo poi degli smartphone: uno dei momenti più deprimenti nella condizione di pensionati è quando ci si accorge di non essere all’altezza del proprio telefonino. E poi il progresso incredibile delle tecniche operatorie, dei trasporti aerei e quindi del cosmopolitismo che si apre ai giovani, ma soprattutto della telematica, portatrice di tanti altri vantaggi che non ti saresti mai aspettato, come la carta di credito, la banca on-line eccetera.
Mentre ti stai crogiolando in questo mare di benessere non puoi tuttavia non vedere tante cose che ti lasciano perplesso: lo scadimento della qualità dell’istruzione, dello spettacolo televisivo, della politica e forse dell’intera società ormai drogata dal consumismo. Come trattenere il malessere che ti assale quando vedi puntare su Piazza San Marco a Venezia una sorta di paese galleggiante, con 2 o 3 mila abitanti che vivono per una settimana una vita da nababbi, con piscina, campi da tennis, shopping, cinema, colazioni, pranzi, cene e, soprattutto per le signore, aperitivo accanto al giovane ed avvenente comandante della nave, una specie di podestà della comunità viaggiante, con diritto di vita e di morte sui cittadini, come Schettino insegna. Al rientro i crocieristi che tornano tristemente all’ordinaria vita quotidiana ti racconteranno che in sette giorni hanno visitato il Cairo, Salonicco, Venezia, Palma de Majorca e Marsiglia, che hanno camminato tantissimo ma che, se li vedi ingrassati, è perché hanno mangiato assai di più.
Ci prende un po’ di sconforto anche quando apprendiamo che le coppie di sposi fanno viaggi di nozze a New York, in Messico, alle Maldive o alle Seychelles e magari non conoscono la Sicilia, la Toscana e tante bellezze italiane che tutti ci invidiano. Ma ti rispondono che ci andranno in seguito: ora era importante vedere New York, perché poi vengono i figli e non si potrà fare più. E allora torni con la memoria a quando i viaggi di nozze erano diretti al massimo a Venezia se non addirittura a Roma, più prossima a chi sposava a Napoli. Magari duravano meno, ma un’idea delle città che visitavi riuscivi anche a fartela. E tutto questo avveniva all’epoca in cui le famiglie iniziavano un percorso verso il benessere economico che cominciava col frigorifero, seguito dal televisore, dalla lavatrice e poi, appena potevi permetterti una rata più robusta, dall’utilitaria con la quale ti si apriva il mondo delle vacanze fuori porta: tempi simboleggiati dall’indimenticabile Gregory Peck in giacca e cravatta sulla Vespa a Roma con Audrey Hepburn seduta sul sellino posteriore. O anche dal bellissimo Marlon Brando che nel film “Il Selvaggio”, con in testa un berretto da poliziotto, montava spavaldo la sua Triumph (non era una Harley-Davidson, che sarà poi mitizzata vent’anni dopo con “Easy Reader”).
Questi grandi attori, così come i comuni mortali, andavano in giro senza casco e senza le cinture di sicurezza nelle auto, che sarebbero arrivate insieme al casco obbligatorio solo qualche decennio dopo. Casco e cinture esemplificano egregiamente il senso del nostro progresso che, per accrescere la sicurezza, ci ha privato di molte libertà: per restare nell’esempio, girare la testa in macchina per fare retromarcia senza cintura di sicurezza e senza il poggiatesta che ti impedisce di girarti come vorresti, oppure prendersi il vento nei capelli su una moto d’estate, a parte la sofferenza in sé di dover portare il casco anche col solleone. E forse è proprio attraverso la libertà che gli individui diventano maturi e acquistano il senso della responsabilità, una qualità che oggi latita a vari livelli e che invece è un fondamento della vita sociale, proprio perché ti insegna a gestire la tua libertà nel rispetto di quella degli altri. Sin dall’età scolare i bambini dovevano fare i conti con la responsabilità: se prendevano una punizione dal maestro, ricevevano il resto a casa da parte del padre o della madre (o di chi ne faceva le veci, per restare nella terminologia scolastica), che se ne assumevano a loro volta la responsabilità, convinti che le punizioni servissero a correggere le carenze dei figli, anche se non tutti erano consapevoli che talvolta avrebbero anche potuto danneggiarli: cosa che succedeva e che la società ammetteva come effetto collaterale di una sana educazione. E le punizioni a scuola fioccavano, talvolta anche quelle corporali: oggi una buona metà degli insegnanti di cinquanta o sessanta anni fa sarebbe allontanata dall’insegnamento per aver turbato l’equilibrio di quei principini che sono diventati i figli dei nostri figli.
Era convinzione comune che la selezione fosse necessaria: tra bambini più dotati e bambini meno dotati, tra caratteri più forti e caratteri meno forti. La selezione produceva un certo numero di “vittime”, che la società riteneva tollerabile, come effetto collaterale del suo progresso. Il servizio obbligatorio di leva rappresentava la prova del fuoco perché divideva i forti dai meno resistenti. Non eravamo nell’antica Sparta e quindi si risparmiava ai deboli lo strazio disumano della Rupe Tarpea. Gli atteggiamenti iperprotettivi, inaugurati in linea di massima proprio dal comportamento genitoriale della nostra generazione, ma poi seguiti dalla didattica, dall’abolizione della leva obbligatoria, hanno concorso a formare una società orientata alla mediocrità con, forse, qualche disadattato in meno, anche se nelle scuole cresce misteriosamente il numero dei diversamente abili.
È un po’ la stessa cosa che succede con gli antibiotici: salvano sicuramente tante vite umane, ma ne indeboliscono miliardi. Con questo non si vuole esprimere un giudizio negativo sugli antibiotici ma semplicemente segnalare un fattore oggettivo di livellamento verso il basso, così come lo è l’atteggiamento protettivo di cui si è detto. Fatto sta che, come aumenta il numero degli alunni bisognosi di sostegno, così vanno in crisi gli antibiotici perché, se utilizzati in maniera arbitraria, causano, com’è noto, lo sviluppo di ceppi resistenti nei batteri. L’uno e l’altro di questi esempi ci confermano che il male della nostra società è costituito dal consumismo sfrenato, che ci somministra troppi antibiotici ma soprattutto ci ha viziato i figli e ci sta viziando i nipoti spingendoli ad un livellamento verso il basso che serve a farne dei consumatori sempre più avidi e sempre più permeabili ai messaggi pubblicitari. Si potrebbe anche individuare un altro fattore decisivo di declino nel venir meno di quella educazione religiosa che un tempo veicolava valori etici, in essi compresi la parsimonia e la continenza, che poi restavano anche in chi si allontanava dalla fede, come un patrimonio genetico ormai acquisito. Questo livellamento sembra oggi irreversibile ed è difficile immaginare che si fermi. Mala tempora currunt e, ahimè, nessuno sembra in grado di frenare la corsa.