Le “crociate” dei lombardi

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Il Monumento al Guerriero di Legnano, spesso impropriamente associato ad Alberto da Giussano (Fonte: Wikipedia)

L’11 febbraio 1843 “La Scala” di Milano metteva in scena la prima dell’opera verdiana “I Lombardi alla Prima Crociata”. Sia pure sullo sfondo di una delle tante vicende di amore e morte, che attraversano come una maledizione tutto il melodramma italiano, nell’opera di Verdi si celebra il contributo dei lombardi alla liberazione della Terra Santa dagli “infedeli”.

Da allora il ruolo della Lombardia e dei suoi laboriosi abitanti è costantemente cresciuto in tutti gli aspetti della società. Furono lombardi Caravaggio e poi nel Settecento gli illuministi Pietro Verri e Cesare Beccaria, che favorirono un decisivo passo avanti nel riconoscimento dei diritti civili e della persona. Anche nelle scienze la Lombardia fece sentire la sua influenza con le figure di Alessandro Volta e di Giuseppe Mercalli. La letteratura italiana dell’Ottocento trovò in Lombardia il suo indiscusso culmine in Manzoni, preceduto da altri corregionali di primo piano come Parini e Berchet e seguìto poi da Emilio De Marchi. Nello stesso secolo il melodramma italiano si giovò delle opere del cremonese Ponchielli e del bergamasco Donizetti la cui sterminata produzione è qualitativamente di poco inferiore a quella di Verdi, anche lui lombardo ma di adozione.

A metà dello stesso secolo la Lombardia diventava poi teatro delle più decisive battaglie per l’indipendenza: Curtatone e Montanara, Solferino e San Martino, Goito, Magenta e anche il popolo lombardo partecipava eroicamente alla cacciata degli austriaci, animando le Cinque Giornate di Milano e le Dieci di Brescia.

Il Novecento vedeva la Lombardia, com’è noto, in piena crescita economica, industriale e culturale: l’editoria trovava i suoi punti di forza in Giovanni Treccani, fondatore del glorioso Istituto dell’Enciclopedia Italiana, e nella nascente Mondadori che avrebbe poi avuto un ruolo fondamentale nella formazione culturale di intere generazioni. Anche gli sport “moderni”, come il ciclismo e poi l’automobilismo, vi ebbero terreno fertile: lombardi furono i ciclisti Guerra, Binda e Girardengo nonché il leggendario automobilista Nuvolari ed il suo erede Ascàri (la tradizione auto-motociclistica si sarebbe poi confermata nel dopoguerra con il campione bresciano Giacomo Agostini).

La guerra civile che concluse la seconda guerra mondiale ebbe in Lombardia, ed in particolare a Milano, il suo tragico epilogo dal quale prese le mosse un’ininterrotta fioritura di tutte le attività umane, alimentate da personalità di grandissimo rilievo in tutti i settori: giganti come Luchino Visconti, Bruno Munari, Giacomo Manzù e Giorgio Strehler, triestino trapiantato, diedero lustro alla cultura italiana nel mondo. Interpreti musicali di levatura internazionale come i pianisti Arturo Benedetti Michelangeli e Maurizio Pollini o come il direttore d’orchestra Claudio Abbado esportarono un’immagine lusinghiera non solo dell’arte italiana ma anche, e specificamente, della serietà e della professionalità lombarde. La cultura più “popolare” veniva invece sollecitata da personaggi dello spettacolo innovativi e coinvolgenti come Celentano, Mina, Gaber, Jannacci il cui lavoro impattava su una società saldamente democratica, rafforzata in questo sentimento dalle stragi fasciste di Milano (Banca dell’Agricoltura) e di Brescia (Piazza della Loggia).

Con queste credenziali di civiltà la Lombardia si affacciava agli anni Settanta avendo tra l’altro espresso politici ed economisti di valore e di specchiata onestà come Ezio Vanoni, Guido Carli e Mino Martinazzoli, solo per citare i più noti. Lo slogan che in quegli anni pubblicizzava la ricca e “performante” Lombardia era: “Una Milano da bere”. E infatti già qualcuno si occupava di renderla “potabile” insieme alla regione di cui è capoluogo e, perché no, all’Italia intera. Tra il 1934 e il 1941 la Lombardia aveva infatti messo al mondo Benedetto Craxi, detto “Bettino”, Silvio Berlusconi e Umberto Bossi, una terna che si rivelerà micidiale, e non solo per la terra di origine. Il primo conquistava nel 1976 il PSI, mettendo nell’angolo personaggi come Lombardi e Giolitti, propensi alla collaborazione col PCI; accaparrandosi la posizione centrale nello schieramento parlamentare, ne diventava l’ago della bilancia. Dalla posizione di potere che si era conquistata, ma che si sarebbe poi conclusa miseramente con Tangentopoli, permise al suo erede spirituale Berlusconi, già spregiudicato palazzinaro, poi pregiudicato frodatore fiscale, di monopolizzare la neonata emittenza televisiva privata e di fare concorrenza alla RAI.

Il percorso di Bossi, fino al 1994, era rimasto totalmente estraneo all’asse Craxi-Berlusconi: il separatismo lombardo, ispirato da quell’ideologo un po’ visionario ma politicamente miope che fu Gianfranco Miglio, non faceva comodo né al politico Craxi né all’imprenditore Berlusconi. Poi qualcosa cambiò. Dopo Tangentopoli Berlusconi scoprì che, se voleva scendere in campo per sottrarsi alle conseguenze della preannunciata vittoria delle “sinistre”, doveva allearsi con Bossi anche se ruspante e quindi imprevedibile e con Alleanza Nazionale, che calò un frettoloso sipario sul giustizialismo sino allora bellamente cavalcato ed un po’ anche sul nazionalismo, osteggiato e dileggiato proprio dalla Lega Nord.

Il filo rosso che ha legato Craxi, Berlusconi e Bossi ha consegnato alla Lombardia e all’Italia tutta “politici” come Roberto Maroni, Roberto Calderoli e Roberto Castelli, l’unico dei tre Roberti che avesse studiato (ingegnere meccanico) ma senza darlo a vedere (dove può arrivare il cameratismo!). Cosa ci hanno lasciato questi tre personaggi è facile ricordare: il primo varò una riforma delle pensioni (col famoso “scalone”, per ripianare il quale, il secondo governo Prodi dovette sganciare parecchi miliardi di euro); il secondo svariava tra offese all’Islam, sfiorando la crisi diplomatica, un simbolico rogo delle leggi e, infine, una riforma elettorale degna di lui. Il terzo finì per fare il ministro della giustizia ed in quella veste fu beccato mentre saltava gridando “Chi non salta italiano è!” ad una manifestazione del suo partito. Ancora oggi ci sorprende che un popolo pragmatico come quello lombardo abbia potuto tollerare l’invasione di queste cavallette razziste e spesso inadeguate. Ma, come se non bastasse, sopraggiungeva da Lecco un altro Roberto, l’ultimo e definitivo, Formigoni, demolitore della sanità pubblica lombarda, condannato dalla giustizia ma anche lui a lungo coccolato dall’ala più cattolica della destra.

Poi seguirono alcuni scandali. I leghisti non erano soltanto ruvidi e spesso ignoranti ma anche furbetti e quindi si scoprì che Bossi aveva usato la cassa del partito per scopi personali e/o familiari con l’aiuto del tesoriere della Lega, Belsito. La reazione dei lombardi non fu niente male perché la Lega alle successive elezioni crollò al 4%. Ma la storia non era finita: facendo leva sulla recessione economica ormai endemica e sul terrore per l’invasione migratoria, artatamente attizzato, la Lega risorgeva con Salvini riguadagnando addirittura il governo del Paese insieme ai 5 Stelle. Ma il vizietto tornava a galla in maniera abbastanza prepotente: si scopriva, in primo luogo, la tuttora misteriosa sparizione dei 49 milioni di euro di rimborsi elettorali ricevuti dalla Lega, attualmente ancora oggetto di indagine. Ma poi, nel giro di un anno e mezzo, venivano a galla il caso Rixi, il caso Siri, il caso, gravissimo se dimostrato, Savoini (tutti, per la verità, immigrati dalla Liguria) e più recentemente, in epoca Covid, le inchieste sull’acquisto del capannone industriale di Cormano, sulla donazione fantasma dei camici alla Regione Lombardia, sul conto svizzero del governatore Fontana, varesino doc, sul Pio Albergo Trivulzio, sulla costruzione-lampo dell’ospedale presso la Fiera di Milano, sulla fornitura dei test sierologici imposta a tutti i comuni.

Cosa stiano ancora aspettando i lombardi per riappropriarsi del Carroccio, simbolo indegnamente requisito, insieme ad Alberto da Giussano (che secondo alcuni studiosi non è mai esistito), da un partito a cui non si può ormai riconoscere, salvo qualche buona prova nelle amministrazioni locali, alcun pregio ma solo ambiguità ed astuzie, come quella di ergersi a partito nazionale strizzando però l’occhio agli elettori del nord ai quali si promette l’autonomia differenziata. Per non parlare di un antieuropeismo che può far comodo solo alla parte meno avveduta dell’imprenditoria settentrionale. Sarebbe il caso che i lombardi pensassero seriamente ad una nuova “crociata” per liberare la loro terra, ormai non più santa, dagli infedeli che ne hanno impoverito cultura, dignità, spirito di solidarietà e le tante qualità che l’avevano resa grande fino a trent’anni fa.

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