Al giorno d’oggi difficilmente tendiamo a mettere in discussione le leggi che governano le nostre società o il nostro mercato. Ci siamo abituati al libero scambio di merci senza frontiere né confini. Tendiamo a chiamare quello che un tempo era capitalismo con una nuova parola: neoliberismo, ma i più “pignoli” lo definiscono libero mercato. Eppure 19 anni fa c’era ancora chi metteva in discussione l’espansione incontrollata del mondo globalizzato. Il G8 di Genova del 2001 ha cambiato per sempre la storia politica non solo del nostro Paese, ma anche quella dei “nostri alleati”. Ebbene sì, perché il G8 non è stato nient’altro che una riunione degli Stati più potenti e industrializzati al mondo che volevano affermare, a spese di tutti gli altri, la propria ricchezza. Agli oggetti, alla merce è stato permesso di circolare liberamente, addirittura favorendo un commercio frenetico e distruttivo. Agli esseri umani sono state invece imposte sempre più restrizioni, limitandone la circolazione. Chi era povero o magari viveva atroci guerre nel proprio paese, o restava o, con difficoltà e sfidando anche la legge, si inseriva in una cultura diversa con un’economia diversa, che l’avrebbe reso certamente ancor più sfruttato. Bizzarro è il fatto che quella destra italiana che all’epoca si apriva al libero mercato, ad oggi lo critica aspramente.
Era il 5 aprile 2000, quando l’allora presidente del consiglio Massimo D’Alema presentava un disegno di legge per tenere il G8 a Genova. Quella decisione segnò non solo i fatti di cronaca che conosciamo, dalle torture alla morte di Carlo Giuliani, ma marcò anche un punto di non ritorno. L’Italia mise a nudo tutti i problemi con la democrazia, con le forme di dissenso, con la gestione dell’ordine pubblico. L’Italia piombò nel caos. Quei ragazzi e quelle ragazze del ‘68, che avevano vissuto anni di fermenti politici e culturali, nel 2000 oramai erano persone più attempate che rivivevano in quei pochi e caldi giorni di luglio uno straccio di rivoluzione. “Rivoluzione” soppressa nel sangue tra le mura delle scuole occupate, nelle piazze sotto gli occhi del mondo interno, sino ad arrivare ad immaginare di occultare un “omicidio di stato”, in pieno giorno, ponendo una pietra vicino ad una testa perforata da un proiettile.
Gli anni seguiti a Genova 2001 sono stati anni silenziosi: andateci a manifestare dopo aver scoperto la faccia più feroce di un celerino! Quella presa di coscienza da parte di chi voleva fermare gli 8 paesi più industrializzati al mondo, fu stordita da colpi di manganelli. Le forze politiche extraparlamentari sono state ghettizzate dopo quel 2001: teppisti, anarchici e sfascia vetrine erano oramai le etichette che si davano a chi “stupidamente” pensava di poter cambiare un sistema. Quel sistema tagliente negli anni si è affermato. Le disparità sociali esplodono, la mano velenosa delle grandi multinazionali marcisce il nostro Pianeta.
Ritornando al presente, non dovrebbero quindi stupire le notizie degli ultimi anni. Quando in Italia una persona muore in carcere o durante un fermo da parte della polizia, pare essere una prassi affermata quella di far circolare notizie “confuse”. Le “cadute dalle scale” o le cause per “morte naturale” sono dinamiche standard a cui ci siamo abituati. Le storie di Aldrovandi, Giuseppe Uva, Stefano Cucchi e tanti altri ce lo insegnano: questi episodi sono solo la punta di un iceberg. Sotto questa punta si nascondono tanti piccoli abusi di potere e illeciti da far tremare la coscienza di qualsiasi stato che si voglia definire veramente democratico. Ebbene sì, perché gli “omicidi di stato” e gli avanzamenti di carriera di certi artefici della carneficina della Diaz a Genova mostrano quanto la democrazia sia un concetto che forse non abbiamo ancora attuato veramente. Recentemente hanno fatto tremare le pareti istituzionali i fatti di Piacenza: una caserma dei carabinieri dove, dai primi riscontri, si spacciava, si torturavano arrestati, si minacciavano pusher. Le indagini lasciano presagire una vera e propria associazione a delinquere. Ma la cronaca ha anche trattato il caso del poliziotto arrestato perché, mentre viaggiava in Calabria con moglie e figli, trasportava 8 kg di cocaina. Insomma, senza nulla togliere ai più che compiono correttamente il proprio lavoro, la storia delle mele marce non sembra reggere più, qui è l’intero sottosuolo ad essere avvelenato, anni di omertà, occultamenti, malaffare. E allora dovremmo iniziare a non tollerare più scempi alla nostra dignità. Sarebbe ora di smetterla di far finta di non sapere che in Italia abbiamo un problema con polizia e carabinieri. Che, se uno viene ammazzato durante un fermo, non ci devono essere protezioni mediatiche per i presunti tutori della legge. Che all’interno delle caserme e dei luoghi che formano le forze militari siano impartite lezioni diverse dal manganellare e insabbiare. L’esigenza di piena verità, l’esigenza di giustizia, di verità completa è un processo che deve partire dallo Stato e noi stiamo aspettando il primo passo. La storia degli altri paesi devi insegnarci che non bisogna scherzare con la rabbia del popolo. Gli Stati Uniti ce lo testimoniano. Bisogna salvare il salvabile, in un Paese in cui avanza la sfiducia verso le istituzioni, il disinteresse per la politica o giustamente la disillusione. Che lo Stato mostri la propria presenza, impartisca una linea dura ma questa volta non più solo verso manifestanti e cittadini “comuni” ma anche verso i tutori dell’ordine pubblico. Tutto questo in fretta, prima che sia troppo tardi.