“Andrà tutto bene!”, l’auspicio col quale gli italiani, uniti dalla paura del Covid, si incoraggiavano l’un l’altro in un epidermico scatto di solidarietà, sta rivelando tutta la sua inconsistenza facendo temere la prospettiva opposta e cioè che “andrà tutto male”. Le premesse sembrano esserci tutte.
All’indomani dell’inequivocabile successo della “politica” italiana, dove per “politica” si intende la ritrovata capacità di stringere alleanze utili per sostenere una mediazione efficace, il premier Conte e la sua “banda”, tutti ancora mascherati anti-Covid, sono tornati in patria con l’aria stanca ma soddisfatta di chi rientra nel “covo” dopo aver appena svaligiato il treno postale. Il sospetto che si tratti di un “furto” sembrerebbe giustificato dalle fortissime riserve mosse, non senza ragione, dai paesi “frugali” anche se, come vedremo, pare più calzante l’ipotesi di un “ricatto a scopo di estorsione”.
Il “ricatto” suonerebbe più o meno così: “Cari partner europei, se torniamo a casa senza un congruo bottino, nel giro di qualche mese l’Italia cadrà nelle mani di una destra antieuropea, sovranista, eversiva e, per giunta, meno capace di noi. La cosa avrà un effetto devastante e nel giro di qualche anno, addio Europa Unita. E sarà un problema anche per i grandi paesi industriali, Germania in testa. Per non parlare dello scacchiere internazionale in cui i singoli paesi dovranno vedersela da soli con le minacce che vengono dalla Russia, dalla Cina, dagli U.S.A. e, perché no, anche dalla Turchia se non riesce a svincolarsi dal tallone di Erdogan. Il solo Rutte non appare turbato da questa catastrofica prospettiva perché conta forse di promuovere l’Olanda a paradiso fiscale”.
Ora la nostra “banda” si accinge a spartire il bottino certamente non nel senso di mettersi in tasca materialmente la pioggia di miliardi che si attende, ma piuttosto nel senso di ottenerne ciascuno una fetta in grado di concimare il proprio orticello elettorale. L’operazione è iniziata con il tracciamento del territorio che ciascuno di loro intende coltivare. Pentastellati e renziani hanno ovviamente lasciato aperto il confine con la destra alla ricerca di un’identità, in assenza della quale sembrano intenzionati più a dividere che ad unificare la maggioranza cui appartengono: come interpretare diversamente la presentazione di liste di partito che danneggeranno non solo i candidati (comuni) del PD e di LEU, ma la stessa tenuta del governo? Come interpretare la insistita contrarietà dei 5 Stelle al MES se non come la bandiera da esibire alle prossime elezioni politiche?
Avendo infatti rinunciato da tempo alla velleitaria ambizione di governare da soli, i 5 Stelle si sono resi conto che bene o male col sistema proporzionale, che date le circostanze non sembra poi tanto malvagio, una percentuale vicina a quella che ormai emerge dai sondaggi consentirà alla loro formazione di occupare stabilmente un posto in Parlamento e quindi di esercitare quel tanto esecrato potere che hanno pian piano imparato ad apprezzare e a gestire con una buona dose di spregiudicatezza non inferiore a quella tante volte contestata ai loro avversari storici.
Renzi, pur limitandosi a rivendicare una soglia più bassa nel futuro assetto proporzionale, tiene aperte le porte ai transfughi da Berlusconi, giocandosi con Calenda la leadership dell’auspicata formazione di un partito di “centro”.
Solo PD e LEU sembrano intenzionati a sostenere il governo senza particolari strategie future se non quella di unificarsi con la parte ragionevole dei 5 Stelle. Ma, per quanto i due partiti della sinistra abbiano sin qui mostrato più buonsenso dei loro scomodi alleati, non appaiono per nulla premiati dal consenso, anzi lo mantengono a stento. In realtà nella società italiana, forse non abbastanza “liquida” o forse proprio per questo (senza un progetto si vive alla giornata e si ascoltano i discorsi rivolti alla “pancia”), l’elettorato è piuttosto freddo nei confronti di chi non gli prospetta immediati benefìci.
L’unico movimento rilevante è stato negli ultimi mesi il travaso di una parte del consenso da Salvini a Meloni. Che la Lega rimanga ancora il primo partito d’Italia è però sorprendente oltre che preoccupante. È da un po’ di tempo il partito sui cui membri si è posata l’attenzione da parte della Magistratura. Vedremo se la caterva di inchieste in atto, da quella per l’acquisto del capannone industriale a quella sul regalo, con regolare fattura poi annullata, che il cognato di Fontana stava generosamente offrendo alla sanità lombarda, scuoterà un po’ l’elettorato leghista. Cosa della quale è peraltro lecito dubitare vista la scarsa incidenza che hanno avuto le più recenti vicende giudiziarie: il caso Savoini, il più allarmante, ma anche le indagini aperte su Edoardo Rixi e Armando Siri quando ricoprivano cariche nel neonato governo gialloverde, per non parlare dei 49 milioni di rimborsi elettorali svaporati. Eppure non troppo tempo fa lo stesso elettorato abbandonò Bossi ed il tesoriere Belsito riducendo il consenso della Lega al 4%. Il tempo corrompe tutto, anche la reattività alle più vistose violazioni della legge.
Se questo è lo scenario e se, come sembra, gran parte dei partiti pensa alle prossime elezioni politiche pur senza perdere d’occhio le imminenti regionali, temiamo di assistere allo sperpero delle risorse in tanti piccoli o grandi rivoli ai quali tutti vorranno abbeverarsi, a partire da Confindustria e finendo all’ultima corporazione in grado di convogliare consenso elettorale, senza dimenticare neppure i sindacati e la chiesa cattolica. Sempreché un simile sperpero non provochi la sospensione degli aiuti europei.
In questa situazione politica a dir poco preoccupante la figura di Conte rappresenta un punto interrogativo. Conte aveva un partito alle spalle, i 5 Stelle, ma non ce l’ha più perché alcuni lo vedono ingigantirsi troppo, mentre altri semplicemente perché, riflettendo, si sono accorti che il Premier li porta fuori binario proprio nelle questioni vitali: la TAV si sta facendo, la concessione ad ASPI non è stata più revocata. Forse temono che Conte li porti ad accettare anche il MES e magari a concordare candidati comuni alle prossime regionali.
Essendosi giocato l’appoggio di una parte non trascurabile dei suoi amici, Conte si azzarderà a formare un suo partito? Sarebbe abbastanza riduttivo e quindi deludete: può tuttora ambire a capeggiare una formazione moderata di sinistra o di centro sinistra. Per raggiungere e sostenere questo nuovo partito fino alle prossime elezioni, Conte, che ha dimostrato sin qui grande acume, non può logorarsi seguendo la politica delle mance elettorali, che lo porterebbe, privo com’è di una struttura organizzata alle spalle, a tornare alla sua peraltro non disprezzabile attività di accademico e di avvocato. Se vuole restare in politica, il suo stesso interesse personale dovrebbe spingerlo a portare avanti un certo numero di autentiche riforme che incontrerebbero, prima ancora che il consenso elettorale, il favore del Quirinale che, allo stato, sembra il suo più affidabile alleato e sostenitore. Solo in questo caso lo slogan “Ripartire” significherebbe che il nostro Paese parte nuovamente. Diversamente il medesimo slogan scadrebbe dall’accezione di “ripartenza” a quella, squallida e disastrosa, di “ripartizione”, non dissimile da quella che mettono in pratica i malfattori dividendosi un malloppo.