Le crisi possono essere un’occasione di cambiamento. E la fase critica, nella quale tante nazioni si trovano ancora impastoiate, esige un impegno di vasta portata affinché il mondo non sia più come prima.
Occorre prendere atto della fine della subalternità alla visione e ai dettami di un sistema-mondo a centralità statunitense, in cui l’elemento economico ha totalmente soppiantato quello politico e sociale; così come si deve ammettere che c’è stata una grave perdita della tensione ideale che aveva improntato la generazione dei “padri fondatori” nell’edificazione di una generosa costruzione sovranazionale europea, progetto che si è involuto in qualcosa di profondamente diverso. Lo scopo “principe” era quello di impedire qualsiasi ritorno ai conflitti e alla barbarie e di salvaguardare i diritti umani.
Eppure il patto sottoscritto nel 1997 dai Paesi membri dell’Unione Europea, relativo al controllo delle rispettive politiche di bilancio pubbliche, secondo i requisiti di adesione all’Eurozona previsti dal percorso d’integrazione monetaria intrapreso nel 1992 con il trattato di Maastricht, recava in calce i principi di “stabilità” e “crescita” ma non della “occupazione”. Quindi la stabilità auspicata era quella dei prezzi, nella erronea convinzione che la crescita economica dipendesse solo da tale condizione. E il lavoro come elemento costitutivo del processo di costruzione europea che fine aveva fatto? Sembrava divenuto un inutile accessorio.
La crisi del 2008 e quella pandemica, in cui ancora ci dibattiamo, hanno fatto emergere la fallacia della “dottrina delle privatizzazioni”; basti vedere quanto il sistema sanitario europeo – largamente pubblico – sia stato più efficiente di quello americano privato. Ugualmente fallimentare è stata la tendenza a “lasciar fare ai mercati”, quando questi hanno dimostrato totale disinteresse per i costi sociali, come l’ambiente e gli investimenti in ricerca. Tragicamente inconsistente si è rivelata la dottrina del “libero scambio” come effetto della globalizzazione che ha prodotto una riduzione dei salari per i lavoratori meno qualificati nei paesi avanzati.
In questo contesto l’ambizione del progetto europeo si è scontrata frontalmente con la debolezza delle stesse istituzioni europee; e allora, da dove ricominciare? Fare da soli non può funzionare; occorre partire dalla consapevolezza della sopravvivenza di un insieme di principi cardine del progetto di integrazione economica e politica dell’Europa – dalla solidarietà alla sussidiarietà – come sedimentazione di valori progettuali e pratiche concretamente operative. Riscrivere le regole non sarà certo più facile di quanto sia stato crearle. Ma le crisi odierne dell’Europa richiedono interventi audaci e un impegno a rinnovare la premessa su cui nacque, oltre mezzo secolo fa, il progetto europeo. E il negoziato sul Recovery Fund, il MES e altre misure di sostegno già attivate vanno nella direzione giusta. In questo contesto, per l’Italia è tempo di prendere i soldi e usarli; ma sia chiaro che gli aiuti pubblici devono porsi come occasioni per orientare gli operatori economici verso obiettivi che la politica ha il dovere di individuare. “Lasciar fare” esclusivamente a questi operatori incrementerebbe solo la flessibilizzazione del mercato del lavoro che da tempo e per troppe persone si è trasformata in precarizzazione. Spetta al Governo far sì che l’auspicato cambiamento avvenga a beneficio del maggior numero possibile di cittadini e non si trasformi in ennesimo cedimento a richieste immotivate di questa o quella categoria.