La nascita della chiesa cristiana come istituzione destinata a governare gli interessi spirituali dell’umanità, indipendentemente dallo Stato, può essere definita a ragione un evento rivoluzionario nella Storia. Siccome il cristianesimo nacque come dottrina di salvazione, non come dottrina politica, le idee “politiche” dei primi cristiani non erano molto diverse da quelle dei pagani: i cristiani potevano credere, non meno degli stoici, alla legge di natura, all’obbligo della legge e del governo di far giustizia, all’uguaglianza di tutti gli uomini dinanzi a Dio. Infatti, scrivendo ai Romani (2,14), l’Apostolo sosteneva la validità della “legge” insita in tutte le creature umane. È vero che i pagani non sapevano nulla di una “legge rivelata” che i cristiani credevano fosse contenute nelle Scritture, ma la fede nella rivelazione non era incompatibile con l’idea che anche la legge naturale fosse legge di Dio.
L’obbligo del cristiano al rispetto per l’autorità costituita era stato decisamente affermato nel cristianesimo già dal suo Fondatore. Quando i Farisei cercarono di cogliere Gesù in opposizione al potere di Roma, egli pronunciò le famose parole riportate nel Vangelo di Matteo (22,21): «Dunque, date all’imperatore quel che è dell’imperatore, ma quello che è di Dio datelo a Dio!». Inoltre, nell’Epistola ai Romani (13,1-7) l’Apostolo aveva scritto le parole “politicamente” più importanti del Nuovo Testamento; tali parole divennero parte essenziale della dottrina cristiana e l’obbligo di obbedienza civile diventò una virtù cristiana riconosciuta. Paolo di Tarso ed altri scrittori cristiani diffusero l’idea che l’obbedienza è un dovere imposto da Dio; ciò dava all’insegnamento cristiano un accento diverso dalla dottrina costituzionale romana, secondo la quale l’autorità del governante derivava dal popolo. L’insegnamento paolino si ricollegava direttamente al dettato teocratico dell’unzione reale ebraica. Per Paolo e per tutti i cristiani non era tanto colui che lo deteneva, quanto l’ufficio in sé che doveva essere rispettato: le virtù e i vizi personali di un reggente non avevano nulla a che fare con la sua carica.
Tuttavia, il cristianesimo era incompatibile con la virtù romana dell’assoluta fedeltà allo Stato. Il cristiano riteneva che la sua religione fosse una verità rivelata da Dio per guidarlo ad una soluzione assai più alta di qualsiasi sorte terrena; credeva che questa religione imponesse dei doveri dai quali l’imperatore non avrebbe potuto scioglierlo e alla luce dei quali egli dovesse valutare il dovere di obbedienza civile. Per il cristiano lo “stato” più grande non era solo la famiglia umana, ma un regno spirituale, il vero “regno di Dio”, in cui il credente era erede della vita eterna, una sorte che trascendeva incommensurabilmente la vita che qualsiasi regno terreno potesse offrirgli. I doveri della religione erano un obbligo supremo, dovuto direttamente a Dio e per questo la cerimonia affatto formale di adorare il “genio” dell’imperatore romano era una condizione che il cristiano non poteva accettare: era coinvolta la coscienza dell’individuo, che non poteva esitare con superficialità su postulati religiosi. Dio fa appello alla coscienza dei singoli cristiani allo scopo di sollecitarne l’uso; è in ossequio a questo principio fondamentale che si deve esaminare la posizione del cristiano “nel mondo”.
Si dice che la politica è la scienza e l’arte di governare gli uomini organizzati in uno Stato: le norme, i principi politici sono il complesso dei fini posti alla vita pubblica di un popolo e dei mezzi per attuarli. La politica è il settore dell’organizzazione sociale che condiziona gli altri perché ha per oggetto le esigenze di coesistenza dei singoli e dei gruppi, quindi dà una forma specifica alla società raccogliendola intorno a fini generali, globali. È incontestabile che le esigenze di coesistenza includono anche quelle proprie dei cristiani per cui, quando un cristiano agisce per soddisfare esigenze legittime, egli compie un gesto “politico” in senso stretto; né il cristiano può isolarsi dall’organizzazione sociale in cui vive; neanche Gesù lo fece, infatti i suoi discepoli erano “nel mondo” (Vangelo di Giovanni 17,11.18). D’altronde, che i primi cristiani non si considerassero inutili nella società in cui vivevano è sostenuto da Tertulliano nella sua Apologia del cristianesimo, cap. XLII.
In conclusione, essere cittadino di una qualsiasi nazione equivale ad essere membro di quello stato politico, usufruendo dei benefici ed accettando le responsabilità che tale appartenenza comporta; può variare il limite entro il quale ci si adegua alle richieste di questo stato politico, ma l’appartenenza ad esso è un dato di fatto. È vero che l’attività politica può diventare corrotta, tuttavia ciò, di per sé, non rende ogni attività politica intrinsecamente malvagia; troppo spesso, nella loro lotta per il potere, certi politici si sono resi responsabili della diffusa accezione negativa del concetto di “politica”, cioè di complotti e strategie di quanti perseguono potere personale. Questo è sbagliato, ma non per il fatto che sia errata ogni azione relativa ad un’attività politica, giacché l’assenza di attività politica corrisponde, nel suo senso specifico, alla mancanza di governo.
* Tratto da A. Aveta – S. Pollina, I Testimoni di Geova e la politica: martiri o opportunisti?, Ed. Dehoniane, Roma 1990