L’indagine giudiziaria aperta in merito alla mancata attivazione della “zona rossa” nei comuni di Nembro e di Alzano offre lo spunto per alcune considerazioni sulle conseguenze dell’istituzione delle Regioni, prevista dalla Costituzione.
Non è dato sapere come le indagini appena iniziate si concluderanno, ma è certo che il rimpallo di responsabilità tra lo Stato e la Regione Lombardia è già iniziato a riprova di una non chiara distribuzione delle competenze tra l’amministrazione centrale e quella periferica che riguarda non solo la sanità ma anche altri settori del servizio pubblico.
Per analizzare le conseguenze dell’istituzione delle regioni non si può che partire dal momento in cui nacquero quelle a statuto ordinario. Qualche giorno fa è caduto (mai espressione fu più appropriata) il cinquantenario delle prime elezioni dei consigli regionali. Il ritardo nell’attuazione di una precisa disposizione costituzionale si spiega con un certo disinteresse da parte della Democrazia Cristiana (DC). De Gasperi in particolare non ne era affatto entusiasta. Le circostanze favorevoli maturarono solo nel momento in cui si creò una convergenza di interessi tra il Partito Comunista e la DC, il primo desideroso di assumere maggiori funzioni amministrative nelle Regioni in cui era più radicato e la seconda indotta a dare una sistemazione a tanti suoi esponenti che restavano fuori dalle cariche parlamentari e di governo.
Chi all’epoca prestava servizio nell’amministrazione statale non può non ricordare come, qualche tempo dopo le elezioni, si aprisse tra i dipendenti pubblici lo scontro all’arma bianca per il passaggio all’amministrazione regionale. La “chiamata” richiedeva, ma non era una novità, l’appartenenza politica al partito che aveva vinto le elezioni e suscitava forti appetiti perché era facile immaginare che il trattamento economico sarebbe stato considerevolmente più elevato di quello, all’epoca modesto, che corrispondeva lo Stato: non solo, ma l’impegno lavorativo cui si andava incontro era quasi inesistente (e lo fu per un bel pezzo) e quindi certamente inferiore a quello, anch’esso all’epoca modesto, che richiedeva il servizio negli uffici statali.
Una volta strutturati gli organici (sempre molto larghi e con posizioni apicali spesso esagerate sia nel numero che nella retribuzione, entrambi inversamente proporzionali ai carichi di lavoro) le Regioni sono andate avanti in qualche modo, con risultati mai entusiasmanti neanche per quelle che funzionavano meglio. La conseguenza più immediata della creazione di questi baracconi politici è stata la crescita senza controllo del debito pubblico che tuttora grava come un macigno sul bilancio nazionale. Ugo La Malfa, leader del Partito Repubblicano in quegli anni e sostenitore da sempre del rigore nella spesa pubblica, dette il suo voto favorevole in Parlamento a condizione che fossero almeno soppresse le province che invece, come vediamo, sono ancora là, diversamente dal buon La Malfa che se n’è andato da un bel po’, inascoltato come capita in questo Paese a tutte le persone serie e perbene.
In realtà, a prescindere dalla confusione che domina tuttora i rapporti tra Stato e Regioni, erano nati quindici nuovi centri di potere politico, generatori automatici del malcostume che si andava sempre più allargando, a beneficio di chi sapeva allegramente approfittarne (come dire, malcostume mezzo gaudio) e quindi anche di clientelismo e di corruzione.
Intanto crescevano di tempo in tempo i conflitti di competenze tra Stato, Regioni, Province e Comuni, specialmente nelle cosiddette “materie concorrenti” disciplinate malissimo dalla riforma del Titolo V della Costituzione, messa frettolosamente in piedi all’ultimo momento dal centro-sinistra. Nel clima concorrenziale che si andava instaurando, i presidenti delle Regioni, alla ricerca di una parità sia pure solo formale col governo nazionale, si appropriavano capziosamente, complici i media sempre pronti a cavalcare ogni forma di enfatizzazione, del titolo di “governatori” mutuato dagli USA, dove però i governatori guidano “stati”, non “regioni”.
Comunque, aldilà di questa osservazione marginale, aumentava il divario tra nord e sud malgrado molti ritenessero che il decentramento avrebbe giovato alle regioni meridionali, restando poi delusi quando si è avverata una previsione del tutto opposta. Ma i danni non finivano qui: l’ulteriore vantaggio acquisito dalle Regioni settentrionali contribuì ad innescare quella bomba ad orologeria che è il separatismo padano, incarnato dalla Lega Nord e tuttora vivo e vitale, anche se la Lega Nord ha ceduto il posto ad una Lega che si autodefinisce nazionale ma che propone ulteriori vantaggi per il nord. Tali sono l’autonomia differenziata ma anche la flat tax di cui beneficeranno i titolari di redditi elevati, allocati prevalentemente nel settentrione industrializzato, col pretesto che tutti i risparmi lasciati nelle loro tasche saranno poi destinati agli investimenti e quindi alla creazione di nuovi posti di lavoro.
La corsa al regionalismo differenziato, che oggi fa gola a tutte le Regioni del nord, rischia poi di rompere quel poco che resta dell’unità politica del Paese, posto che il comune sentire tra nord e sud è ormai non più che un ricordo (basti pensare ai cori razzisti negli stadi) e il partito che lo sostiene ultimamente mette in seria discussione non solo l’unità del Paese ma anche la sua collocazione internazionale.
Infine, ma non è l’ultimo dei problemi, la creazione delle Regioni ha comportato un’abnorme dilatazione della campagna elettorale che è ormai un continuum punteggiato di tornate elettorali ciascuna delle quali è preceduta da un martellamento ininterrotto di sondaggi. La conseguenza più disastrosa di questo clima perennemente pre-elettorale è l’appiattimento dei partiti, di tutti i partiti, sulla ricerca del facile ed immediato consenso a discapito di ogni più ambizioso progetto a medio o lungo termine.
Tirando le somme, dopo cinquant’anni possiamo convenire con l’opinione confidata, subito dopo il varo della legge istitutiva delle Regioni, da Ugo La Malfa al suo amico Antonio Maccanico, segretario generale della Presidenza della Repubblica con Pertini e Cossiga, e ripresa dalla Gazzetta del Mezzogiorno in un articolo dello scorso 19 gennaio: “Abbiamo approvato la legge che porterà l’Italia alla rovina”. La Malfa e Maccanico, entrambi meridionali, forse avevano ragione.