Il caso Palamara ha riaperto la polemica che periodicamente si accende intorno al rapporto tra la politica e la magistratura. La dinamica è sempre la stessa: scoppia uno scandalo sulla condotta anomala di qualche magistrato e immediatamente scattano propositi di riforma volti a “normalizzare” il terzo potere dello Stato. Lungi dal prevedere come la vicenda evolverà, è comunque prevedibile che nel comportamento del sunnominato non si ravvisino, allo stato, ipotesi di reato ma solo inopportuni contatti volti ad addomesticare importanti nomine negli uffici giudiziari: comportamento senz’altro biasimevole che però può condurre probabilmente a provvedimenti di natura disciplinare. Ma la politica e, per la verità, anche una stampa moralista a corrente alternata, ne hanno fatto un caso grave. L’episodio aggiungerà quindi qualche ulteriore elemento di urgenza alla riforma della magistratura già da tempo in cantiere, la cui natura punitiva sarà, prevedibilmente, sostenuta dalla destra e dai populisti mentre la sinistra, probabilmente, non prenderà le debite distanze.
Questa volta la politica vorrebbe, tra l’altro, vietare le correnti nel Consiglio Superiore della Magistratura (CSM). L’intento è ovviamente, prima ancora che velleitario, poco credibile. Il CSM è l’organo costituzionale di autogoverno dei magistrati e risponde all’esigenza di sottrarre la gestione dei magistrati alle influenze degli altri poteri dello Stato in modo da assicurarne l’indipendenza. Rientrano quindi nelle sue attribuzioni sia la copertura degli incarichi e delle sedi vacanti, sia il trasferimento dei magistrati, sia l’adozione di provvedimenti disciplinari nei confronti di magistrati che abbiano disatteso le regole di condotta cui sono tenuti nell’esercizio delle loro delicate funzioni.
E, come in tutti gli organi collegiali che debbano assumere decisioni di rilievo pubblico (ma forse anche in un semplice condominio di grandi dimensioni), si rende necessario incanalare i consensi verso ciascuno dei loro possibili esiti. È quindi comprensibile che si creino delle strutture intermedie e che queste si organizzino in associazioni.
Come nei partiti, nei sindacati e nelle organizzazioni datoriali anche nella magistratura nascono dunque le correnti e sarebbe giusto che, per ovvie ragioni di trasparenza, le correnti fossero sempre riconoscibili all’esterno, come avviene per quelle dei magistrati che hanno denominazioni note a tutti.
Le correnti della magistratura nascono formalmente nell’ambito dell’organizzazione di categoria dei magistrati, che è l’Associazione Nazionale Magistrati (ANM). È poi fisiologico che una volta costituita una corrente all’interno dell’ANM chi vi ha aderito non cessi di portarsi dietro questa appartenenza anche nel momento in cui accede al CSM. Le correnti sono quindi pienamente legittime e non a caso il Capo dello Stato ha ultimamente condannato le degenerazioni delle correnti e non le correnti stesse. Opinione condivisa da Valerio Onida, presidente emerito della Corte Costituzionale, il quale nell’intervista pubblicata su Repubblica il 1° giugno, invitato ad esprimere il proprio parere sull’ipotesi di scioglimento “ope legis” delle correnti nella magistratura, ha risposto: “Parlare di scioglimento non ha senso perché sono solo delle libere aggregazioni di magistrati. Ma devono agire come aggregazioni culturali, non come gruppi di potere.”
Oggi l’illusoria alternativa del governo all’impossibilità di sciogliere le correnti è quella di ridurne drasticamente l’influenza introducendo, ad esempio, il sorteggio almeno in una delle fasi che portano alla nomina dei membri del CSM (nel quale, per inciso, siedono anche membri laici, cioè non togati, nominati dai partiti e quindi dalle correnti che in essi sguazzano senza problemi, com’è giusto che sia).
L’attacco della politica però non si ferma qui: alla magistratura si contesta, e se ne occupa anche il progetto di riforma nelle mani del guardasigilli, la libertà dei magistrati di lasciare temporaneamente le loro funzioni per accedere a cariche pubbliche, elettive e non, e di poter poi rientrare nel ruolo una volta cessato l’incarico. Le argomentazioni sulle quali poggia questo proponimento sono a dir poco bizzarre: il magistrato che aspirasse ad una carica politica, specie se elettiva, sarebbe avvantaggiato dalla notorietà e dal consenso acquisiti nel corso della sua attività (e di conseguenza potrebbe cercare di conquistarseli a tutti i costi nel momento in cui decidesse di tentare “il salto”). In base a questo ragionamento, che guarda ai meriti acquisiti, non dovrebbero candidarsi alle elezioni né luminari della scienza, né imprenditori di successo, né avvocati di grido e forse neppure attori, cantanti o calciatori, tutti sospettabili di essersi costruito un forte consenso in vista di future elezioni. Assurdo ed anche incostituzionale!
Ma rimane invece in piedi, e rischia anzi di passare, la proposta che negherebbe al magistrato di rientrare nelle sue funzioni una volta cessato il mandato politico. La motivazione, non meno speciosa di quella appena accennata, è che la credibilità e con essa l’imparzialità del magistrato reduce dall’esperienza politica sarebbe irrimediabilmente compromessa dalla posizione politica pubblicamente assunta: il che equivale ad avallare l’immagine, fallace perché inesistente, di un magistrato privo di propensioni politiche o anche di atteggiamenti culturali, mentre è pacifico che ogni magistrato le abbia, come tutti i cittadini comuni, e che si sforzi di liberarsene nell’esercizio delle sue funzioni. In ogni caso, l’ordinamento prevede la possibilità della ricusazione per “legittima suspicione” del magistrato ritenuto non in grado di garantire l’imparzialità di giudizio.
Appare chiaro che tutti questi arzigogoli non sono solidamente fondati sul piano giuridico. In realtà la politica nutre un antico sentimento di rivalsa nei confronti della magistratura almeno da quando, con tangentopoli, quest’ultima tentò di orientarla verso comportamenti più virtuosi. Tentativo peraltro sostanzialmente fallito perché, dopo una breve stagione di vasto consenso popolare nei riguardi di chi aveva finalmente spezzato i partiti che gestivano le fila di una trama corruttiva ormai consolidata, la palla passò a Berlusconi.
Da quel momento la magistratura non ha avuto più tregua: contrastata con l’approvazione di leggi “ad personam”, delegittimata sistematicamente amplificandone sia gli errori giudiziari (quante volte è stato rispolverato il vecchio “caso Tortora”!) che ogni comportamento più o meno doloso; come se i magistrati potessero essere miracolosamente tutti infallibili e di specchiata onestà in un paese pervaso dall’incompetenza e soprattutto dalla corruzione, che lo vede ai primissimi posti nella graduatoria mondiale.
E quando la politica accusa la magistratura di scarso rispetto per la deontologia, viene piuttosto da chiedersi se e quando la politica abbia coltivato la propria e se si sia mai interessata di quella degli avvocati presenti in Parlamento da quando Berlusconi vi catapultò interi collegi difensivi.
Lo scopo di questo asfissiante lavoro ai fianchi della magistratura è quello di ridurne i poteri e quindi la possibilità di interferire nel groviglio di interessi quasi sempre oscuri che legano il mondo politico a quello economico-finanziario. Il passaggio obbligato per raggiungere questo risultato è la separazione delle carriere tra la magistratura inquirente e quella giudicante in modo da sottomettere la prima al controllo del potere esecutivo. Il passo successivo, e definitivo, sarebbe poi l’abolizione dell’obbligatorietà dell’azione penale: spetterebbe quindi al ministro della giustizia stabilire se e quando procedere nei confronti dei politici che si fossero macchiati di reati, sia in favore del partito che di se stessi, come avveniva nel ventennio. Con buona pace della separazione dei poteri (altro che separazione delle carriere!) concepita da Montesquieu e ripristinata in Italia, col sacrificio ed il martirio di molti, dalla Costituzione Repubblicana.