“C’è un dollaro d’argento sul fondo del Sand Creek” – così Fabrizio de Andrè cantava il massacro dei nativi americani in Colorado nel 1864. Ed oggi dopo più di un secolo, molto più a Sud del Sand Creek, c’è un territorio che sta soffrendo particolarmente in questo delicatissimo momento storico e i cui abitanti sono a rischio estinzione. Il nodo scorsoio ora si stringe intorno al polmone verde del nostro pianeta: l’Amazzonia.
Ma facciamo un passo indietro: grande nove volte la Francia, l’Amazzonia si estende per 6,7 milioni di km quadrati attraversando 9 paesi del Sud‐America: Bolivia, Brasile, Colombia, Ecuador, Guyana, Perù, Suriname, Venezuela e Guyana francese. È un patrimonio inestimabile del nostro pianeta, che contiene e conserva una ricchissima biodiversità insieme alle culture ancestrali dei popoli indigeni che la abitano. Per questo motivo tre aree protette della sua immensa superficie sono state inserite nella lista del Patrimonio Mondiale dell’Umanità dall’UNESCO. Presenta una varietà di ecosistemi così grande che chiunque la visiti passa con stupore dalla giungla più fitta a territori più secchi, attraversando pianure ed impervi percorsi.
Spesso l’Amazzonia si trova al centro della cronaca per i ripetuti tentativi da parte del governo Bolsonaro e dell’agrobusiness brasiliano di diminuire gli ettari di foresta per interessi privati e per aumentare l’estensione di terreno coltivabile. Ma, se a questo aggiungiamo il rischio della pandemia di ovid-19 per le popolazioni indigene di questi territori, capiamo bene che al disastro ambientale si aggiunge il grave e terribile rischio di genocidio degli indios.
L’11 aprile scorso a Rehebe, presso la tribù degli Yanomami, che vive tra il nord del Brasile e il sud del Venezuela, è stato registrato il primo caso di contagio e morte di un ragazzo di 15 anni, Alvanei Xirixana, a causa del Covid-19. Quella degli Yanomami, formata da circa 38.000 persone, è una delle tribù più esposte al rischio di estinzione: di fronte a questa catastrofica eventualità, numerosissimi sono stati gli esponenti politici, i personaggi della cultura e dello spettacolo che si stanno mobilitando per salvare l’Amazzonia e le popolazioni indigene che la abitano; tra tutti ha assunto dimensioni planetarie l’appello lanciato dal famoso fotografo e reporter Sebastião Salgado insieme alla moglie Lélia Wanick, che in pochi giorni è arrivato a centinaia di migliaia di firme, tra cui quelle di importanti esponenti del mondo politico, musicale e culturale: Santiago Calatrava, Mario Vargas Llosa, Paul McCartney, Caetano Veloso, Meryl Streep, Pedro Almodóvar, solo per citarne alcuni.
Salgado, che ha trascorso sette anni a contatto con le popolazioni indigene dell’Amazzonia per un suo reportage fotografico, “Genesis”, nel suo appello si è rivolto direttamente al governo del proprio Paese: “Chiediamo al presidente della Repubblica, il sig. Jair Bolsonaro, e ai dirigenti del Congresso e della Magistratura di adottare misure immediate per proteggere le popolazioni indigene del Paese da questo devastante virus. Questi popoli fanno parte della straordinaria storia della nostra specie. La loro scomparsa sarebbe una grande tragedia per il Brasile e un’immensa perdita per l’umanità. Non c’è tempo da perdere “.
Il fotografo, brasiliano di nascita, ha denunciato con forza la politica colonialista delle agroindustrie e dei cercatori d’oro che, durante la pandemia, sono stati più liberi di muoversi accedendo senza filtri e barriere ai territori dei popoli nativi, facendo aumentare vertiginosamente il rischio di contagio per queste popolazioni che vivono in una situazione di isolamento quasi totale e che non presentano anticorpi adeguati per determinate malattie. La storia ci ricorda, a tal proposito, il genocidio degli indios da parte dei conquistadores spagnoli, che con virus ed agenti patogeni esterni portati dall’Europa sterminarono quasi totalmente le popolazioni autoctone.
“Non ci sono dottori nelle nostre comunità, non c’è attrezzatura di prevenzione di fronte a questa pandemia. Non c’è supporto per il cibo”: queste le parole di denuncia di José Gregorio Diaz Mirabal, del Coordinamento delle organizzazioni indigene nel bacino amazzonico.
La risposta della FUNAI, la Fondazione Nazionale dell’Indio, all’appello di Salgado non si è fatta attendere: ha proposto infatti di mettere all’asta le opere del fotoreporter, invitandolo ad utilizzare il denaro raccolto per sostenere economicamente le popolazioni indigene; le foto in questione appartengono alla collezione che Salgado ha creato lo scorso anno dal reportage fotografico svolto nella valle Javari in Amazzonia, con il gruppo etnico Korubo do Coari.
Ma il fotografo si è spinto oltre ed impavidamente ha chiamato in causa il diritto umanitario e la legislazione internazionale sui diritti umani, pronunciando due parole: genocidio e crimine contro l’umanità. Non sembra spaventarlo l’ipotesi di incriminare il governo del proprio Paese, se non dovesse intervenire per salvaguardare la foresta amazzonica ed i popoli che la abitano.
Si ricordi che la Dichiarazione ONU per i diritti dei popoli indigeni all’articolo 7 attesta: “Le persone indigene hanno diritto alla vita, all’integrità fisica e mentale, alla libertà e alla sicurezza personale. […] Hanno il diritto collettivo a vivere in libertà, pace e sicurezza come popoli distinti e non devono essere soggetti ad alcun atto di genocidio o qualsiasi altro atto di violenza.”
A livello locale, in particolar modo l’APIB (Articulação dos Povos Indígenas do Brasil), il coordinamento nazionale delle associazioni e movimenti per i popoli indigeni, creato nel 2005, si è fortemente mobilitato insieme a Salgado nella battaglia per salvare l’Amazzonia. Anche altre organizzazioni ed enti internazionali sono intervenuti per chiedere di fermare l’entrata incontrollata nei territori degli indigeni: prima tra tutti Amnesty International, che ha chiesto di aumentare le attività di monitoraggio e controllo delle terre ancestrali e di accesso alla sanità e protezione delle popolazioni indigene. Anche Survival, il movimento mondiale per i diritti dei popoli indigeni, ha denunciato la quasi totale assenza di organismi di monitoraggio ambientale, come l’ Istituto Brasiliano dell’Ambiente e delle Risorse Naturali Rinnovabili (Ibama) e della FUNAI, a corto di finanziamenti da parte del governo. Il presidente Bolsonaro infatti dall’inizio della sua amministrazione ha ridotto i fondi per le forze dell’ordine ambientali e ha chiesto la riduzione dei territori indigeni e delle aree protette.
Ricorderemo tutti la minimizzazione che il governo brasiliano ha fatto della pandemia da Covid-19, definita solo “una piccola influenza”, che ad oggi situa il Brasile al 3° posto per numero di contagi, dopo Stati Uniti e Russia e superando la Gran Bretagna: sono saliti a 257.396 i casi positivi e a 16.941 i morti (dati aggiornati al 19 maggio 2020). L’elemento preoccupante è che questi valori potrebbero in realtà essere falsati poiché sono il risultato dei tamponi effettuati solo sui casi più gravi, il che genera un allarme ancora maggiore nel Paese sud-americano: i numeri reali potrebbero essere di gran lunga superiori.
Oltre a sottovalutare la reale dimensione della pandemia, Bolsonaro sta dunque avallando le incursioni dei cercatori d’oro e delle agroindustrie in Amazzonia. Non è nuovo ad atteggiamenti simili, se ricordiamo appena l’anno scorso la mobilitazione mondiale contro la deforestazione amazzonica e la sua risposta di non-intromissione negli affari interni dello stato brasiliano. Come se l’Amazzonia fosse una proprietà di uno Stato, e non appartenesse all’intera umanità.
Così, mentre le lancette dell’orologio avanzano, la parola etnocidio prende forma sempre di più. Nessuno può essere lasciato indietro in una situazione simile. Ma soprattutto, questa situazione riguarda ognuno di noi. Abbiamo bisogno dell’Amazzonia per gli equilibri del nostro pianeta perché l’epidemia da Covid-19 ci ha dimostrato quanto i ritmi di vita a cui eravamo erroneamente abituati, lo sfruttamento eccessivo del suolo, la deforestazione e l’intervento umano sugli equilibri della natura abbiano avuto un esito devastante sull’ecosistema e, dunque, anche su di noi. Ma soprattutto abbiamo bisogno dei popoli indigeni dell’Amazzonia per preservare la ricchezza ed i valori del genere umano, per quanto diversi e lontani possano apparire, perché è questo il senso di interconnessione che va preservato più di tutto: non solo un’interconnessione economica e politica, ma soprattutto sociale ed umana, affinché ogni grido di dolore di un indigeno della più sperduta comunità incontattata dell’Amazzonia possa risuonare e diventare grido di dolore e di mobilitazione dell’intera umanità.
Un grande articolo di denuncia, preciso e dettagliato. Uno scritto che ci mette di fronte alla realtà dell’Amazzonia e delle sue popolazioni. Realtà che forse immaginiamo, consociamo ma così lontana da non catturare la nostra attenzione. Perché mentre noi ci preoccupiamo di poter ritornare a fare aperitivo, ci sono persone dimenticate che nel mondo continuano a morire.