L’ormai famoso decreto, denominato in primo momento “Aprile”, è stato finalmente varato. Ritenendo sconveniente aggiornarne il nome a “Maggio”, è parso più elegante chiamarlo “Rilancio”. La prima osservazione non può che essere un sospiro di sollievo visto che non si chiama “Rilancia Italia” e che, dopo il decreto “Liquidità”, seppellisce definitivamente l’intollerabile sequela di “Salva Italia”, “Cura Italia” ed altre banalizzazioni da asilo infantile che ci avrebbero prima o poi condotto ad un inevitabile decreto “Povera Italia”. D’altra parte anche la nuova denominazione è un po’ infelice perché evoca scenari da partita a poker, dove il “rilancio” nasconde talvolta un bluff.
Un valido commento ai contenuti del provvedimento ci è stato offerto da Giuseppe Capuano; rimane opportuna qualche osservazione di ordine politico. La prima riguarda l’innegabile ritardo con cui se ne è concluso l’iter. Il prezzo di questo ritardo, come di tutti quelli che lo hanno preceduto anche se non imputabili al solo governo centrale, è già leggibile nei sondaggi, che vedono sostanzialmente immutato il consenso ai partiti che sostengono il governo Conte: se gli interventi fossero stati puntuali, ci si sarebbe potuto attendere un grosso balzo in avanti, non fosse altro che per il successo dell’iniziativa italiana in sede europea, propiziato anche dall’impegno di Sassoli e Gentiloni, entrambi legati al PD. Il perché degli specifici ritardi imputabili al Governo è di un’evidenza assoluta e porta i nomi di Renzi e di Di Maio i quali, marciando divisi ma colpendo insieme, hanno creato una vera e propria tenaglia capace di paralizzare, come le chele di uno scorpione velenoso, l’attuazione di qualunque iniziativa che non recasse il segnale leggibile dei loro contributi, quasi sempre tra loro incompatibili: averli conciliati è un successo che tutti dovrebbero riconoscere a Conte ancor prima di valutare nel merito il decreto.
Che Renzi sia un “guastatore” seriale è notorio e ce ne siamo accorti già in occasione della “defenestrazione” di Enrico Letta. La deludente consistenza elettorale del suo partito lascia però sperare che i suoi sbarramenti stiano per esaurirsi salvo fiammate distruttive sempre possibili dato il temperamento focoso del personaggio.
Sorprende invece che i 5 Stelle conservino tuttora un bacino elettorale di un certo peso, benché dimezzato dalla passata convivenza con Salvini. E la persistenza di questo consenso è un mistero: tutti sanno che il Movimento è ormai a tutti gli effetti un partito, con tanto di correnti e di protagonismi sempre alla ricerca della visibilità personale; non solo un partito tradizionale ma un partito tradizionale non dei migliori con le sue trame oscure, con la rincorsa, senza scrupoli, alle posizioni di potere nei posti chiave di enti, istituzioni e del sistema finanziario. Il tutto esercitato con un cinismo che propone ai suoi elettori vessilli ormai vuoti, visto che i risultati vanno quasi sempre in senso opposto: si vedano in proposito le vicende del TAV, del TAP, della revoca della concessione ad Autostrade e, ultimamente, quella della regolarizzazione degli immigrati. Ostinarsi poi nel sostenere che il MES sia una fregatura è un caso di autolesionismo non a caso condiviso da Salvini, autolesionista conclamato dopo la genialata dello scorso agosto. Si sa anche che all’interno del Movimento si confrontano opinioni e schieramenti opposti, ma la sintesi che ne scaturisce rasenta la schizofrenia. L’ala che guarda a sinistra non si rende conto di quanto le condizioni ricattatorie, costantemente sollevate dalla minoranza filo-leghista all’insegna dell’ortodossia ideologica, indeboliscano, come succede col decreto “Rilancio”, provvedimenti che diversamente sarebbero più efficaci e tempestivi. Di Maio e i suoi seguaci, che guardano a destra, cosa possono mai vedere in quella direzione se non una riedizione peggiorata della subordinazione a Salvini già sperimentata col governo gialloverde?
Nell’attesa di una qualche soluzione (scissione?) del conflitto che si consuma quotidianamente nel Movimento 5 Stelle, non ci resta che prendere atto di una triste realtà: la politica italiana è attualmente in balia della generazione allevata a pane e nutella. Renzi e Di Maio e molti dei loro followers hanno un’idea semplicistica della politica, condivisa a pieno titolo con Salvini, Meloni e Di Battista i quali vi sembrano aggiungere una malsana inclinazione verso l’autoritarismo. A Napoli si dice: “A’ pazziella ‘mman ’e ccriature” (“il giocattolo in mano ai bambini”). E l’Italia è una “pazziella” particolarmente complessa. Non è la Svezia né il Portogallo, ma un Paese pieno di incrostazioni vecchie – come la criminalità organizzata, la corruzione, l’evasione fiscale, una burocrazia arretrata – e nuove, come una legislazione sfilacciata e una classe dirigente inadeguata e incompetente. L’impatto dei politici di nuova generazione con questo contesto è dirompente anche perché troppi tra loro hanno sin qui dimostrato di non saper riconoscere i propri errori, presi come sono dalla spasmodica ricerca dell’affermazione personale.
Noi elettori siamo da tempo abituati ad interrogarci lungamente prima di esprimere il nostro voto su quale sia il male minore, restando spesso dubbiosi; siamo invece certi che il bene maggiore sarebbe se questa schiera di mancate promesse della politica si ritirasse per un po’ di anni sabatici dedicandosi ad acquisire quella consapevolezza e quelle competenze che taluni considerano un inutile fardello. Ma evidentemente il semplicismo coinvolge anche larghe fasce di elettori e non soltanto quelli allevati a pane e nutella, binomio che quindi assolviamo da qualunque colpa. Dovesse sopraggiungere una inattesa ventata di maturità, dopo le prossime elezioni i “5 Stelle” potrebbero rinominarsi “7 nani” con riferimento alla statura politica dei suoi esponenti o, in caso di totale disfatta, “4 gatti”.