Bentornata, Silvia

tempo di lettura: 4 minuti

Il 20 novembre 2018 in Kenya, un gruppo legato ai jihadisti somali di al-Shabaab, armato con machete e fucili d’assalto, fa irruzione nei pressi del villaggio di Chakama, ferisce cinque persone e si dirige presso l’abitazione di Silvia Romano, prelevandola con la forza. Ha inizio così il suo calvario che durerà 18 mesi. La giovane milanese era in Kenya con Africa Milele Onlus, una Onlus che opera nel paese africano per favorire progetti di sostegno all’infanzia. Nei mesi successivi al rapimento Silvia, insieme ai suoi rapitori, si sposta di continuo, cammina per settimane nella giungla prima di giungere in Somalia. In quest’altro paese afferma di esser stata rinchiusa in diversi covi per settimane, senza mai vedere la luce del giorno. “Ho passato i primi mesi di prigionia a piangere e camminare all’interno dei covi dove ero rinchiusa”. Questa storia sembra la sceneggiatura perfetta di un film drammatico, ma purtroppo la primavera di questo 2020 ci insegna che l’epilogo di questa tremenda realtà supera di gran lunga la più terribile delle fantasie.

Il 10 maggio Silvia è finalmente tornata in Italia, atterrando all’aeroporto di Ciampino, Roma, alle ore 14:00, scortata da agenti dell’Aise, i servizi segreti italiani. C’è stata una trattativa lunga e difficile iniziata già nell’estate del 2019 e conclusasi nel migliore dei modi. Ma nel “Bel Paese” il passaggio dal tripudio di tutti all’odio mediatico di tanti è stato brevissimo. Silvia, atterrata a Roma coperta dal velo e fasciata in una veste tradizionale islamica, ha subito affermato di stare bene, di essersi convertita all’Islam e sorprendentemente di non esser stata “maltrattata” dai suoi rapitori. Dichiarazioni che, in un Paese ancora deturpato da frange profondamente razziste, sessiste e islamofobe, non sono state bene accette. Una parte del web si è subito scagliata contro la giovane cooperante internazionale. Ad oggi è scioccante apprendere che per i tanti messaggi di odio ricevuti, la Procura di Milano ha aperto un’inchiesta contro ignoti, l’ipotesi è di minacce aggravate. Nonostante i tanti messaggi di solidarietà, c’è addirittura qualcuno che ha pensato di tappezzare le strade adiacenti al suo quartiere con manifesti offensivi. La Questura di Milano si è vista costretta così a far presidiare la via del quartiere Casoretto da pattuglie di polizia. Una situazione paradossale per un paese da “mulino bianco”, che prima appare unito in uno spirito di solidarietà collettiva, tappezzando i balconi di mezza Italia con slogan quali: “Andrà tutto bene”, “distanti ma uniti”, ma che poi manifesta il  volto peggiore di alcuni suoi figli accogliendo una giovane in modo ignobile. Da alcuni, ancora troppi, la scelta di Silvia è stata vista quasi come un tradimento allo Stato italiano. Costoro fingono di non ricordare, o non hanno mai saputo, che l’Italia è un paese laico e non sottostà al dominio di una specifica religione. La conversione della cooperante è stata oggetto di forti critiche, come se dovesse più importarci della sua scelta religiosa che gioire della liberazione. Il paradosso è che la stessa chiesa cattolica, di cui molti si fanno portavoce senza però incarnare realmente il messaggio religioso di armonia e compassione, ha preso le parti della giovane, sottolineando che a nessuno importa la sua conversione, Silvia va accolta semplicemente come una “figlia” ritornata. Silvia Romano era in Africa per prestare aiuto ai più bisognosi, quei bambini e quelle bambine che versano in uno stato di povertà assoluta, che noi occidentali, rassicurati dalle nostre comodità, difficilmente possiamo immaginare. Ad oggi “i soldi dei contribuenti” appaiono valere più di una vita umana. C’è chi ha spostato l’attenzione sulla somma di denaro versata per il suo riscatto, chi ha ipotizzato che la giovane fosse incinta, e chi ha affermato che la sua conversione fosse oggetto di un trauma psicologico o il risultato della famosa “sindrome di Stoccolma”. Insomma sono bastate poche ore per far venir fuori il peggio di alcuni, trasformare per l’ennesima volta il web in una ghigliottina mediatica. La pandemia non ha reso tutti migliori e questo è di palmare evidenza. La conversione di Silvia sembra essere diventato un problema nazionale in cui tanti, troppi si sono sentiti chiamati in causa per esprimere un parere. Ma quello che ferisce è che non solo il web, ma anche certa stampa italiana, ha dimostrato di aver toccato il punto più basso del giornalismo nostrano. Il noto ma poco letto quotidiano “Libero”, fondato da Vittorio Feltri, titolava così l’11 maggio: “Abbiamo liberato un’islamica”; oppure il berlusconiano “Il giornale” scriveva: “Schiaffo all’Italia. Islamica e felice Silvia l’ingrata”.

Va da sé che ci teniamo a prendere le distanze da un certo tipo di stampa che si contraddistingue per sollecitare consensi tra le frange che fomentano odio. Probabilmente tanti “italioti” avrebbero preferito veder scendere dall’aereo una persona distrutta, triste, che potesse essere l’emblema di una nuova crociata contro il nemico islamico. Ma fortunatamente così non è stato. Silvia Romano, reduce da un sequestro durato un anno e mezzo, sembra aver un equilibrio psicologico molto più forte di quello di chi si è offeso alla vista di un semplice Jilbab (un abito che tra l’altro non ha una connotazione religiosa, ma è utilizzato dalle tribù al confine tra Kenya e Somalia). Questa faccenda non fa altro che mettere in luce i lati oscuri di un Paese che ha ancora tanto su cui lavorare, dove trovare un nemico per ogni cosa sembra essere uno sport nazionale. Un Paese che ha nel suo DNA uno spirito destroide ancora radicato, in cui “il diverso” è ancora oggetto di odio e avversione. C’è da dire però che questa parte d’Italia, col suo atteggiamento, non si è tanto distinta da quei terroristi che vedevano in Silvia, donna bianca ed europea, il miglior bersaglio da colpire.

Ma ritornando finalmente a lei: Bentornata a casa Silvia! avevamo davvero bisogno di persone come te, per continuare a lottare per un Paese, per un’umanità migliore. Intanto hai dimostrato al mondo intero il vero valore della solidarietà, che non conosce barriere né confini.

1 commento su “Bentornata, Silvia”

  1. Devo dire mi aspettavo un articolo sull’argomento, a conferma della capacità di zonagrigia.it di seguire le vicende con attenzione offrendo sempre originali spunti di riflessione, anche se diciamo cose che, per chi ha una certa sensibilità, ribollono dentro con amarezza, che a volte sfocia in rabbia per l’impotenza che affligge la speranza che le cose possano cambiare. La speranza che il personale abbia il dovuto rispetto del proprio essere nella preminenza di una dimensione collettiva. Questo Paese, ma non è purtroppo una caratteristica solo italiana, soffre della patologia del privato superiore al pubblico. Patologia che negli anni 80 ha cominciato a mostrarsi sfacciatamente non più nascosta nella militanza, nel fare politica. Domina una cultura che giustifica, e premia, chi persegue il proprio interesse a qualsiasi costo, spesso con l’arroganza che suscita una posizione di potere di qualsiasi genere. Una cultura che ha scalato tutta la gerarchia sociale fino a raggiungere la gran massa delle persone con effetti a mio parere devastanti.
    Ma veniamo ad Aisha. Sono curioso ed interessato di sapere, anche se ne ho certezza, se Francesco ha pensato di chiedere ad Aisha della sua conversione. Sono certo che è tra i non molti in grado di comprendere ed accettare. Un suo colloquio privato avrebbe comunque una rilevanza pubblica che, se confermasse la bontà del fatto, darebbe ulteriore forza alla convivenza dei diversi credo e culture. L’importante è la fede, che per me si traduce come fiducia. Anche se Aisha si fosse convertita perché plagiata dalle estreme circostanze sarebbe semplicemente una vittima. È comunque una di quelle persone che è stata capace di dedicare una parte della propria vita a chi ne aveva estremo bisogno e, per me, resta una sorta di eroina. Grazie per la risonanza. Peppe Mancini

Rispondi

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.

Torna in alto