Le vene aperte dell’America Latina – come le chiamava il grande scrittore e giornalista Eduardo Galeano – sono più aperte che mai. E non si tratta solo dei terribili effetti del Covid-19, ma piuttosto di una storia lunga secoli che oggi, più di ieri, vede un continente schiacciato da misure economiche, restrizioni, mancanza di strutture sanitarie adeguate, povertà e inflazione. In questo contesto, c’è un Paese in particolare la cui preoccupante crisi migratoria ha bisogno di particolare attenzione: il Venezuela.
Il 14 marzo scorso è stata chiusa la frontiera tra Colombia e Venezuela, per impedire il passaggio dei migranti venezuelani che ogni giorno attraversavano il confine per fare approvvigionamenti di cibo e beni di prima necessità. La chiusura di questa frontiera da parte del governo di Bogotà, per fermare il dilagare dell’epidemia di Covid-19, ha in realtà aumentato le fughe clandestine ed ha occultato lo stato di salute dei migranti venezuelani. Ma facciamo un passo indietro, cercando di fotografare lo stato delle cose prima del dilagare dell’epidemia di coronavirus.
Quello dei venezuelani è uno degli esodi contemporanei più grandi al mondo, secondo solo alla crisi umanitaria siriana. A fine 2019 il numero dei migranti e rifugiati che hanno lasciato il Venezuela era di 4,8 milioni, mentre ad aprile 2020 il numero ha superato i 5 milioni (5.093.987), su una popolazione di più di 28 milioni di abitanti. Il problema delle migrazioni venezuelane viene, però, ancora trattato come un problema regionale, trattandosi invece di uno degli esodi di massa più grandi del XXI secolo. L’Organizzazione degli stati americani (OAS) ha sottolineato che la migrazione venezuelana non ha ricevuto l’attenzione sufficiente da parte della comunità internazionale, nonostante stia incidendo fortemente sulla conformazione demografica e geografica dell’America Latina e dei Caraibi.
Ma quali sono le ragioni storiche e politiche che si celano dietro questo fenomeno migratorio di tale portata? In primo luogo, è lecito porre l’attenzione sulla politica della Casa Bianca, che sembra proseguire sulla scia della famosa Dottrina Monroe, iniziata nel 1823 e mai realmente terminata, che stabiliva l’egemonia statunitense su tutto il continente sud-americano, con interferenze più o meno celate non solo sui sistemi politici dei Paesi latino-americani ma anche economici e monetari.
Su questa scia, l’amministrazione Trump ha messo in atto un blocco economico e finanziario che ha messo in ginocchio l’economia di uno dei Paesi più ricchi di materie prime (petrolio ed oro), congelando tutti i conti bancari e le proprietà del Venezuela negli USA ed impedendo dunque transazioni economiche ed approvvigionamento di beni essenziali. Il Venezuela è stato dunque posto sullo stesso piano di Iran, Cuba e Siria.
I principali Stati che accolgono i migranti e i rifugiati dal Venezuela sono in particolare: Colombia, Perù ed Ecuador, seguiti poi da Brasile, Argentina e Cile. Questi Paesi richiedono una politica migratoria a livello regionale per gestire in modo congiunto quest’emergenza. Esaminiamo sinteticamente le principali differenze tra le politiche di accoglienza dei flussi di migranti venezuelani da parte di questi Paesi, prima dell’epidemia di Covid-19.
La Colombia è il paese con il più alto numero di migranti provenienti dal Venezuela, che sono circa 1,2 milioni di persone, di cui solo 600.000 regolari. Occorre precisare che i migranti venezuelani si dividono in pendolari, pendulares, che attraversano la frontiera anche quotidianamente per rifornirsi di prodotti e medicinali non disponibili nel proprio Paese, i migranti cosiddetti en transito, che attraversano la Colombia per raggiungere altri Paesi latino-americani ed infine coloro che invece si fermano e stabiliscono stabilmente nel Paese. Inizialmente il governo colombiano ha adottato una politica di “porte aperte” nei confronti del Paese vicino, accogliendo migliaia di migranti, in particolare i cosiddetti migranti “qualificati”, di ceto medio, che hanno apportato ingenti benefici all’economia colombiana: si stima, infatti, che alle fine del 2019 il PIL colombiano sia cresciuto del 3,3% rispetto al 2018. Fino a poco tempo fa la “fama” dei migranti venezuelani, con la loro manodopera qualificata, ha consentito loro di entrare abbastanza facilmente negli Stati limitrofi: oltre alla Colombia, infatti, anche in Argentina furono inseriti nel mercato del lavoro migliaia di ingegneri petroliferi della compagnia petrolifera statale “Petróleos de Venezuela”.
Oltre al permesso di residenza, nel 2017 la Colombia ha creato il Permesso Speciale di Permanenza (PEP) per coloro che entrano dal Venezuela nel Paese attraverso le frontiere regolari e muniti di passaporto, i quali hanno diritto alla permanenza per due anni, insieme all’accesso al mercato del lavoro, all’assistenza sanitaria e all’istruzione. Il problema nasce nel momento in cui non tutti coloro che sono costretti ad abbandonare il Venezuela riescono a conseguire in tempo la documentazione richiesta, andando quindi incontro a situazioni di grande vulnerabilità: attraversando il confine in modo irregolare, spesso i migranti si stabiliscono in zone periferiche e remote del Paese, dove oltre a non ricevere le adeguate misure di assistenza, vengono spesso anche reclutati da gruppi armati, sfruttati nelle coltivazioni illegali o diventano vittime di violenza, prostituzione e discriminazioni.
Il secondo Paese per presenza di migranti venezuelani è il Perù, fortemente criticato dagli altri Paesi latino-americani per le dure restrizioni che ha introdotto riguardo i flussi migratori: è stato richiesto ai cittadini venezuelani il possesso del visto umanitario per poter entrare nel Paese. Questo visto è un documento particolarmente difficile da ottenere, il che fa diminuire notevolmente il numero di migranti regolarmente ammessi all’interno dei confini peruviani.
Per ciò che riguarda il Brasile, fino al 2015 non si sono registrate migrazioni significative, poichè la maggior parte dei migranti venezuelani erano pendolari, che si muovevano principalmente per rifornimenti di medicine e cibo; in seguito però, negli ultimi tre anni ed in particolare tra il 2019 e il 2020, il Paese latino-americano che ha accolto il maggior numero di migranti venezuelani è stato proprio il Brasile; anche grazie alla sua estensione geografica, è il paese che meglio è riuscito a fronteggiare l’esodo, accogliendo più di 61.000 migranti nel 2018. A tal proposito il 15 febbraio 2018 è stato creato un Comitato Federale per l’assistenza in emergenza, per fronteggiare l’accoglienza e l’assistenza umanitaria degli immigrati più vulnerabili. Soprattutto nello stato settentrionale di Roraima, nel nord del Brasile, le condizioni dei migranti venezuelani sono molto critiche: a fine 2019 si registravano circa 600 arrivi al giorno, in una regione dove il sistema sanitario è molto fragile, costringendo i migranti a vivere in edifici abbandonati, o baraccopoli, con scarso accesso ad acqua, elettricità e cibo. Dal 2018 Medici Senza Frontiere lavora in quest’area per fornire assistenza ed aiuto sia alle comunità di migranti venezuelani che alla popolazione locale, soprattutto nel campo delle cure mediche.
Riguardo le condizioni dei diritti umani delle migliaia di migranti che lasciano il Paese e sono costretti a viaggiare e vivere in condizioni rischiose e precarie, a maggio 2019 Amnesty International ha lanciato una campagna dal nome “Welcome Venezuela”, in cui denuncia la drammatica situazione sociale in cui si trovano i migranti venezuelani in altri Paesi, con profondi effetti sui diritti umani, ma anche sociali ed economici, come la salute, il lavoro e l’alimentazione.
La situazione dei flussi migratori venezuelani sta inoltre incidendo fortemente sulla demografia del Sud-America, cambiando assetto all’ordine pre-esistente.
Ma quali sono state le principali risposte a questa crisi?
In primo luogo, nel 2014, è stata creata la Piattaforma Regionale di Risposta per i Migranti e Rifugiati Venezuelani, con la partecipazione di UNHCR (Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati) e della OIM (Organizzazione internazionale per le migrazioni), per far fronte a questo problema di portata internazionale che ha conseguenze in tutto il Sud-America, come strumento di coordinamento e di creazione di un fondo da parte di 137 organizzazioni.
In secondo luogo, nel settembre 2018, undici Paesi latino-americani hanno firmato la Dichiarazione di Quito sulla “mobilità umana dei venezuelani nella regione”: questa Dichiarazione di 18 punti, seppur giuridicamente non vincolante, implica che i Paesi firmatari si impegnino a facilitare la circolazione delle persone, chiedendo anche al governo di Caracas un’azione congiunta per fornire ai propri connazionali documenti d’identità e di viaggio opportuni. L’importanza di questa Dichiarazione sta nella condivisione delle responsabilità e in un approccio regionale al problema, cercando di garantire soprattutto il rispetto dei diritti umani dei venezuelani che lasciano il proprio Paese, e facilitando e migliorando le pratiche burocratiche per concedere i permessi di residenza temporanei.
A tal proposito infatti centinaia di migranti entrano in modo irregolare nei Paesi di accoglienza, e questo fa sì che non si abbiano dati ufficiali reali che facciano comprendere la reale portata della crisi umanitaria in atto, in cui c’è bisogno urgentemente di un intervento coerente ed adeguato dell’intera comunità internazionale.