Dopo quasi sessanta giorni di “arresti domiciliari” non si può dire che il rapporto tra me e mia moglie si sia deteriorato più di tanto. Qualche reciproco sospetto sulla tenuta della memoria dell’altro però si insinua di tanto in tanto. Anche se siamo anziani lucidi (per quanto ancora?), chi ci assicura che un inizio di demenza senile non si nasconda magari in qualche banale episodio?
L’altro giorno (ieri o ieri l’altro o ancora prima, chi si ricorda) non si trovavano gli spaghetti. Mia moglie assicurava che dovevano esserci e che “qualcuno” li aveva spostati chi sa dove. La cosa rischiava di andare per le lunghe mentre l’acqua bolliva sul fuoco e non c’era comunque altra pasta da calare, quando mia moglie ha aperto il frigo e guardandomi con aria ad un tempo di trionfo e di commiserazione ne ha tirato fuori gli spaghetti. Ho detto: “Qualcuno li avrà messi lì per sbaglio”. Senza indagare ulteriormente su chi fosse quel “qualcuno”, abbiamo mangiato, come previsto, gli spaghetti, ma si vedeva lontano un miglio che il sospetto non ci aveva abbandonati.
Ed allora si è affacciata alla mia mente di recluso l’ipotesi pacificatoria che gli spaghetti si fossero rifugiati da soli nel frigo. Dopo una lunga clausura è lecito concepire una tale assurdità? Mi sono risposto che sì, era possibile. E mi sono quindi immaginata la vita degli spaghetti, certamente non diversa da quella degli altri formati di pasta. Nati a Gragnano vengono, dopo l’essiccazione della primissima infanzia, impacchettati e cominciano a viaggiare. Alcuni di essi attraversano gli oceani. Altri, come i nostri, si fermano dopo pochi chilometri. Poi comincia la loro terza e ultima stagione, stipati in una dispensa.
Gli spaghetti trovati in frigo erano gli ultimi rimasti, quelli che giorno dopo giorno avevano visto partire, senza ritorno, i loro compagni di dispensa. La loro partenza veniva preannunciata sempre da uno strano rumore, come di qualcosa che bolle. Rimasti soli, i nostri spaghetti non appena udito il temuto rumore avevano capito che questa volta la pentola bolliva per loro (Hemingway avrebbe intitolato “Per chi bolle la tiàna”, se avesse voluto farne un romanzo) e fuggivano nel posto più vicino. Inutilmente però, perché, a parte una temperatura glaciale che non si sarebbero mai aspettati, venivano scaraventati nell’acqua bollente dove trovavano degna cottura, al dente. Pace all’anima loro. Questa la triste storia degli sfortunati ma coraggiosi spaghetti che avevamo appena mangiato con gusto perché ottimi.
Queste fantasie hanno l’effetto di distrarci dalle nostre preoccupazioni che si concentreranno sul coronavirus almeno fino a quando non ci saranno concrete prospettive di guarigione anche per gli ultrasettantenni. Il fatto che qualche giorno fa sia stata dimessa da un ospedale di Palermo una centenaria guarita dal virus non ci conforta più di tanto perché si tratta di un evento unico e non è detto che le sue sofferenze siano terminate. Come nel caso del novantaquattrenne dimesso un paio di settimane fa da un ospedale del Lazio. I suoi familiari, delusi, volevano portarlo in una casa di riposo garantendogli che avevano scelto una casa tranquilla, di tutto riposo. Il vecchietto si rifiutava ostinatamente, convinto che, dati i tempi, si trattasse invece di una trappola, cioè di una casa di eterno riposo. Difronte alla tenace insistenza dei parenti il vecchietto continuava ad opporre una resistenza disperata. Finché, non si sa come, partiva un colpo che abbatteva il povero vecchio. Adesso si indaga per scoprire chi cacchio lo aveva messo a conoscenza dei pericoli che correva in una residenza per anziani. Una fake new o lo stadio iniziale delle allucinazioni cui sono esposti al tempo del coronavirus gli anziani in isolamento?