Due settimane fa su La7 Enrico Mentana, nel corso del suo Tg, ha trasmesso la lettera di un anziano morto di Covid-19 in una residenza assistenziale sanitaria (RAS). Dalle sue commoventi parole non trapelava l’amarezza per la solitudine e l’abbandono in una struttura di ricovero per anziani, lontano dai suoi cari o per la consapevolezza di una malattia che probabilmente (com’è stato) lo avrebbe portato alla morte. Il suo sconforto nasceva dalla relazione sua e degli altri ospiti della struttura con i medici e gli infermieri, che avrebbero dovuto prendersi cura di lui. Non a caso la lettera inizia con un profondo senso di gratitudine, sollievo e gioia a ricordo di un’infermiera della quale vedeva solo gli occhi sorridenti e udiva il tono di voce gentile e confortante, a differenza dei suoi colleghi e dei medici, sempre accigliati, frettolosi, di poche parole e spesso sgarbati. Da questo episodio possiamo trarre spunto per riconsiderare il ruolo delle professioni sanitarie, troppo inserite in contesti tecnico-burocratici e spesso freddi notai di atti che richiederebbero ben altre capacità.
I vertici di eccellenza e tecnologia, raggiunti dalla scienza medica, sono la conseguenza di un cambiamento di prospettiva radicale nella visione della malattia e del malato. Un cambiamento che ha portato a rivoluzionare tutti gli strumenti di indagine, arrecando insperati vantaggi nello sconfiggere e controllare malattie fino ad allora invalidanti o mortali ed elevando l’aspettativa di vita a ben oltre gli 80 anni. Basta pensare ai miracoli dell’ingegneria genetica capace, con semplici manipolazioni e sostituzioni di tratti del DNA (geni), di donarci farmaci di sintesi (ad esempio l’insulina) in breve tempo e a costi irrisori, che fino a ieri si estraevano da tessuti biologici con processi lunghi e costosi. Oppure le cellule staminali, quelle cellule indifferenziate, totipotenti, che possono essere indotte, in particolari terreni di coltura, a differenziarsi nei tessuti desiderati, aprendo la strada a quegli allotrapianti che elimineranno il principale problema attuale dei trapianti d’organo, ossia il rigetto. Come nelle leucemie, in cui si effettua la donazione di staminali del sangue, che si trovano nel midollo, da un donatore sano a uno malato. Ma com’è avvenuto questo nuovo cambiamento di prospettiva, e soprattutto che conseguenze negative oltre che positive ha apportato?
Nell’ultimo secolo la rivoluzione industriale, tecnologica e informatica, favorita dai continui progressi della scienza e della tecnologia ha portato allo sviluppo di apparecchiature, macchinari e sistemi virtuali che hanno liberato sempre di più l’uomo dalla schiavitù del lavoro fisico e dalla ineluttabilità delle malattie (si pensi. ad esempio, ai vaccini, agli antibiotici e ai chemioterapici). La sopravvivenza per secoli è stata la stella polare che ha sempre guidato il genere umano: sopravvivenza alla fame, alle malattie e ad altri pericoli naturali. La Terra, con le sue risorse e pericoli, è stata il palcoscenico dove si è svolta la rappresentazione della condizione umana, fatta di lavoro, pericoli, guerre, malattie e morte precoce. Condizione mitigata in parte dall’ombrello delle religioni, il cui conforto è stato il necessario contrappeso alla fatica di vivere della maggior parte della popolazione. Tutto è iniziato in Europa, in un’epoca che gli storici chiamano Illuminismo quando, sulla spinta intellettuale di alcuni uomini di genio, si riconsiderò la posizione dell’uomo nel creato, fino ad allora dominata da un radicale teocentrismo. Allora la chiesa dettava legge su ogni ambito dello scibile, stabilendo ad esempio l’età della Terra (4000 anni a.C., secondo l’arcivescovo Ussher) o che era il Sole a girare intorno alla Terra, che a sua volta era piatta, e che tutte le creature viventi in ogni epoca non si fossero evolute da un antenato comune, cambiando funzione e morfologia, a dispetto della staticità biologica affermata della chiesa. Finché arrivarono Galilei, Darwin, Buffon, Copernico e Newton, e l’uomo finì di essere un angelo sceso sulla terra e divenne una umile scimmia che si alza dal suolo. Le conseguenze che l’impatto ebbe su questa nuova visione si vedono ancora oggi, nonostante le evidenze scientifiche accumulatesi: basta pensare che la disputa tra creazionisti ed evoluzionisti è ancora accesa nella civilissima America. La nuova visione che poneva l’uomo al centro dell’universo ha contribuito a un radicale cambiamento della medicina che fino ad allora, nonostante i contributi di Ippocrate, Galeno e di illustri anatomisti come Leonardo, riconducevano la salute a cambiamenti dell’umore interno e alla qualità dell’ambiente, se non a svariati e fantasiosi sortilegi. Si pensi alla sfortunata morte di Giorgio Washington che per un banale mal di gola, dopo una nottata passata sotto la pioggia a ispezionare le sue piantagioni in Virginia, fu sottoposto a quattro salassi, cataplasmi di cantaride alla gola ed emetici, fino a morirne per uno shock ipovolemico. Per non parlare della chiesa, che considerava la malattia una punizione divina per i peccati o un modo di cui Dio si serve per chiamare a sé gli eletti. Si cominciò così a studiare la fisiologia, l’anatomia del corpo e le alterazioni che portano alla malattia, fino ad arrivare (con i progressi della chimica) alla sintesi di nuovi farmaci, che si affiancarono a quelli naturali. Col tempo e con lo sviluppo di sempre nuove e più efficaci tecnologie i mezzi di indagine si sono via via sempre più raffinati, arrivando a un tecnicismo che purtroppo si è trasferito anche nel rapporto con la malattia. Esami di laboratorio, biopsie ed altre indagini strumentali (tac, risonanza magnetica nucleare, ecografia, PET) sono diventati indispensabili ausili nella professione medica, con la nascita di nuove figure professionali. I risultati sono stati sorprendenti: sconfitta di molte malattie infettive, principali cause di morte fino alla metà del secolo scorso, cura o controllo delle più comuni malattie cardiovascolari, ospedali con reparti dedicati. I medici oggi sono i nuovi santoni che officiano il rito della salute con la competenza che viene loro dalla conoscenza dei meccanismi biologici che stanno alla base del benessere fisico. Si esamina un elenco di dati e misure che riguardano le funzioni vitali con apparecchiature sempre più sofisticate, ma quello che manca purtroppo è un confronto diretto, una relazione tra il mondo dei medici e quello dei malati. Mentre in altre discipline i termini di riferimento – quantità, funzioni, durata, classi ecc. – sono netti e finiti e ammettono una sola e precisa definizione, con un atteggiamento del tutto diverso e necessariamente di spersonalizzazione e distacco, qui il discorso cambia perché la variabile “fattore umano” evidenzia una complementarietà necessaria al raggiungimento dell’obiettivo. “È la visione newtoniana-cartesiana variamente parafrasata in medicina, ma anche in politica in biologia, a ridurre gli uomini in macchine, automi, formule, cifre, sistemi, riflessi” (O. Sacks). Ma tutto ciò che è vivo è individuale: ognuno ha la sua salute, la sua faccia, la sua mente, le sue reazioni, le sue paure, le sue aspettative. Ancora Sacks: “salute, malattia e reazioni non possono essere capite in vitro, da sole, ma solo se riferite a me, quali espressioni della nostra, del nostro vivere”. Tuttavia la medicina moderna sempre di più prescinde dalla nostra esistenza riducendoci a repliche identiche che reagiscono a stimoli prefissati in modi altrettanto prefissati, e col considerare le nostre malattie come fenomeni estranei, senza relazione organica con la “persona malata” e di conseguenza tratta la malattia con tutte le armi a disposizione trascurando la “persona malata”. Claude Bernard, il padre della fisiologia, diceva: il patogeno è nulla, il terreno tutto. Di conseguenza, “le malattie hanno un carattere proprio, ma partecipano anche del nostro carattere” (O. Sacks).
Per concludere, ribadendo la complementarietà tra questi due aspetti della malattia e della cura si può dire che è compito della medicina scientifica curare l’ “esso”, quello della medicina esistenziale è di risvegliare la volontà latente, l’ “io” con i suoi poteri di comando e coordinamento. Queste due forme di medicina perciò devono essere unite come anima e corpo, non possono fare a meno l’uno dell’altro, altrimenti la loro separazione darà i frutti amari della depressione del sistema immunitario, arma moderna che si cerca con ogni mezzo di stimolare e di personalizzare con l’ingegneria genetica.