“E se una casa diviene divisa contro sé stessa, tale casa non potrà durare”. Sono parole vecchie di duemila anni, ma che mantengono tutta la loro straordinaria attualità. Di che casa stiamo parlando? Di molte, una dentro l’altra, come in una matrioska. C’è la nostra casa, le quattro mura domestiche entro le quali ci rifugiamo e nella quale, chiudendo la porta, crediamo di poterci mettere al riparo da un mondo che, improvvisamente e inaspettatamente, ci è diventato ostile, minaccioso pieno di incognite e pericoli che incombono su di noi e che sono pronti ad aggredirci non appena mettiamo il capo fuori dall’uscio. Vi è, poi, un’altra casa: la città, il paese, il comune in cui viviamo che, a sua volta, è parte di una casa più grande: la nostra regione che, insieme alle altre, costituisce la casa con la quale ci identifichiamo e che è la nazione, lo Stato, il Paese. Da alcuni decenni, poi, noi europei abbiamo imparato a identificarci con la più grande delle case: 27 stati tutti insieme formano la casa europea, l’Unione Europea. Nei momenti di crisi, di smarrimento, di pericolo, come quello che il mondo intero sta vivendo, ci aspetteremmo che tutti i responsabili di queste case si stringessero gli uni agli altri, determinati a combattere insieme il nemico comune che minaccia oltre alle nostre stesse vite, anche il nostro consolidato modello di vita che ha fatto della società europea, dalla fine della seconda guerra mondiale, una delle società più avanzate del mondo. E, invece, assistiamo con sgomento a tutto il contrario: i comuni sono in lotta con gli altri comuni, le regioni vanno ognuna per conto proprio e lo Stato non riesce a stabilire nemmeno uno straccio di comportamento uniforme e sono, come scrisse due secoli fa Manzoni, “l’un contro l’altro armati”. La lotta, invece della cooperazione, è sempre più evidente all’interno dell’Unione nella quale, a tre mesi dall’inizio di questo dramma, ancora si combatte non per la casa comune, ma contro la casa comune, in un crescendo di egoismi, sospetti, ripicche, divisioni. Non può non venire in mente la domanda che Primo Levi pose a titolo di un suo libro: Se non ora, quando? Sì, quando quelli che oggi sono chiamati i “decisori” faranno tesoro di quelle antiche e sagge parole e, dimentichi di antiche faide, di protagonismi, di patriottismi fuori luogo e fuori tempo, decideranno di unire le loro forze e non dividerle?
Stiamo vivendo un tempo di sospensione, di straniamento, di smarrimento, di perdita delle certezze e delle libertà godute fino a ieri e date per scontate quando, se si voleva uscire di casa, si poteva farlo in qualunque momento senza maschere, guanti, disinfettante e, cosa più singolare di tutte, senza un documento che certifichi perché usciamo, dove andiamo, cosa facciamo; una libertà vigilata, molto vigilata, con il timore che le nostre motivazioni non siano sufficienti e in linea con l’ultimo dei 150 decreti governativi, regionali, comunali … e pertanto di subire una sanzione. Come scrive opportunamente Ezio Mauro (la Repubblica del 20 aprile), “C’è di conseguenza la manifestazione potente delle nostre fragilità, della nostra paura, che ci porta spontaneamente a comprimere la sfera dei nostri diritti, per rinchiuderci in un guscio di protezione”. Questo stato d’animo, questa paura, non possono continuare indefinitamente, pena il dilagare di psicosi che, una volta fatta breccia nella collettività, potrebbero recare conseguenze imprevedibili. Eppure, le autorità (comunali, regionali, nazionali, europee) continuano ad andare tutte in ordine sparso, spesso in contraddizione fra loro. Questo disorientante periodo ha affiancato alla immarcescibile figura del politico che, intervistato quotidianamente, ripete ormai la stessa e indigeribile litania che mostra tutta la sua disarmante incapacità, un’altra figura che ormai invade tutti gli spazi: quella dell’esperto, il virologo, l’immunologo, lo pneumologo, il farmacologo, l’epidemiologo. Questi personaggi si moltiplicano di giorno in giorno, forti della loro autorità scientifica alla quale i politici sono obbligati a dare ascolto. Ormai sono centinaia; ogni comune, regione, lo Stato hanno la loro task force; sembra che ce ne siano già più di 15 con 448 generali. Comitati a non finire, superconsulenti, esperti che ogni giorno snocciolano dati, cifre, percentuali, che ci lasciano sempre più smarriti e attoniti nel vedere che la Lombardia va da una parte, il Veneto da un’altra, il Piemonte da un’altra ancora, mentre sembra che fra nord e sud i presidenti del meridione vogliano erigere una linea Maginot per tener lontani i settentrionali infetti dai meridionali che, una volta tanto, sembrano passarsela meglio. E mentre quotidianamente questa infinita pletora di uomini di scienza continua a snocciolare le sue pillole di saggezza, noi comprendiamo sempre meglio che anche loro navigano a vista, ogni giorno illudendoci che fra breve avrà inizio la mitica “fase due”, una sorta di “liberi tutti”, e nel frattempo proliferano comitati per l’emergenza che si contraddicono fra loro con il risultato di una sorta di tecnocrazia impazzita alla quale sono state delegate le sorti del Paese, mentre il Parlamento è sempre più latitante, quasi evanescente, e tace.
E mentre gli scienziati discettano, i politici all’ombra del coronavirus si spartiscono le leve di comando, lottando per la spartizione delle presidenze delle società partecipate dello Stato, con il Movimento 5 stelle impegnatissimo nella lottizzazione dei manager di Stato. E, come scrive Marco Damilano (L’Espresso del 19 aprile), “La moltiplicazione dei comitati, le divisioni della maggioranza … sono i volti di questo stato di eccezione in cui manca il sovrano che decide. Mentre il Paese si avvia verso l’8 settembre economico e sociale”.
Ormai non si parla d’altro, come se il mondo fosse tutto racchiuso in una sola parola: “Covid”! ma non è così. Non è cambiato niente: i ghiacci continuano a sciogliersi, il riscaldamento globale a crescere, le stragi in Siria, Libia e le migrazioni di masse di disperati non si sono fermati un solo istante. Ma noi non vogliamo saperne, inchiodati come siamo alle insopportabili conferenze stampa quotidiane di protezione civile, di medici, di direttori, di primari, che ormai dilagano anche loro come il coronavirus. Fermatevi! Per un solo istante, tutti insieme, mettete da parte i protagonismi e meditate su quelle antiche parole: “Una casa divisa non può durare” (Marco 3,25).
ARTICOLO DI GRANDE INTERESSE, CHE NELLA LUCIDA CONCISIONE TOCCA LE SFUMATURE DEL CONTESTO IN CUI SIAMO SPROFONDATI IN UN BATTER DI CIGLIA.
QUESTA CASA SE ” divisa contro sé stessa … non potrà durare”. SARA’ COSI’?
FORSE LA RISPOSTA POTREMMO AVERLA ANDANDO ALLE RICERCA DELLE FONDAMENTA.
E’ STATA COSTRUITA SULLA ROCCIA O SULLA SABBIA ?