L’esemplare di bacillo più antico rinvenuto in un deposito di sale in Siberia risale a ben 650 milioni di anni fa. Se si tiene presente che la linea evolutiva che portò all’homo sapiens risale a circa 6 milioni di anni, risulta evidente che i germi patogeni sono esistiti molto prima dell’uomo e che, pertanto per mantenersi debbono essere stati dotati di una costituzione eccezionalmente resistente. Queste microscopiche forme di vita sarebbero divenute patogeni in seguito a una serie di adattamenti attraverso mutazioni e modificazioni delle resistenze dell’ospite. Nella prima fase di convivenza invece c’è un rapporto di commensalismo, ossia di reciproco vantaggio. Un momento fondamentale di questa evoluzione si ebbe quando i nostri antenati abbandonarono gli alberi per vivere al suolo. E qui furono maggiormente esposti all’azione di agenti infettivi apportati dalle feci degli animali, dalle acque stagnanti etc. La successiva mobilità dei primi ominidi aumentò poi la possibilità di contagio e diffusione di nuove infezioni. Divenuti patogeni poi svilupparono il loro naturale tropismo verso particolari organi o tessuti, divenendo causa di infezioni specifiche (epatite, tubercolosi, lebbra etc.).
Le malattie provocate hanno dominato per millenni lo scenario del mondo, condizionando la vita dei popoli, il destino degli imperi, l’esito di guerre e grandi migrazioni. Basti pensare che la civiltà etrusca cadde per la malaria e gli Incas per il vaiolo. Bastò un soldato dell’armata di Cortez affetto dal vaiolo perché morissero più di 3 milioni di aztechi. La famosa peste medioevale poi in soli quattro anni (1347-1351) causò la morte di un terzo dell’umanità di allora. Eppure, nonostante l’abbiano fatta da padrone, le malattie infettive ci hanno lasciato scarsi segni del loro passaggio. Basta pensare che la diagnosi retrospettiva di queste malattie si basa sull’esame delle lesioni residuate nelle ossa e nei tessuti mummificati, quando ci sono. Accennerò a tre delle tante malattie infettive che hanno funestato il cammino dell’umanità, accompagnandola fino ai nostri giorni e che più di tutte hanno lasciato sulle ossa testimonianza della loro presenza: la poliomielite, la tubercolosi e la lebbra. Per la poliomielite l’agente eziologico è il poliovirus, altamente contagioso, che provoca una paralisi e successiva atrofia muscolare degli arti. Le prime testimonianze risalgono all’antico Egitto con ritrovamento di una stele raffigurante una figura affetta da paralisi con atrofia evidente di un arto e un piede equino, che per reggersi si appoggia a un bastone. Sul fronte della paleopatologia il primo reperto osseo su cui fu eseguita una radiografia risale sempre all’antico Egitto, nel 2200 a.C. Era una mummia che rivelò un femore più corto e ipotrofico, esito di una poliomielite. Come sempre accade con le malattie contagiose, come stiamo vedendo in questi giorni, nel corso dei secoli la polio ha avuto una progressiva diffusione planetaria con dei picchi nel periodo industriale, favorita dalla prossimità fisica imposta dai nuovi ritmi lavorativi. Finché l’arrivo di un vaccino (Sabin) agli inizi degli anni 60 del secolo scorso ne ha ridotto drasticamente l’incidenza.
L’altra grande malattia infettiva è stata, ed è purtroppo, anche se molto più circoscritta, la tubercolosi. Causata dal bacillo di Koch, dal nome dello scienziato che lo scopri quando riuscì a vederlo e isolarlo con un mediocre microscopio donatogli dalla moglie per il suo 35º compleanno nel 1882; all’epoca nessuno scienziato riusciva a immaginare che l’origine di molte malattie fossero i microbi. Si pensava fantasiosamente che fossero di miasmi, l’aria (da cui malaria) o la corruzione degli umori interni. Impotenti nel combattere questa malattia le si erano riconosciuti addirittura dei poteri benefici, nel senso che poteva indurre il malato a una depressione creativa e al misticismo, forse perché proprio in quel periodo ne furono affetti Chopin, Leopardi, Cechov, Dostoevskij e Modigliani. Dai reperti archeologici probabilmente la tubercolosi fece la sua comparsa quando l’uomo passò ad allevare il bestiame (fu quindi una zoonosi) circa 10-12.000 anni fa. La varietà umana sarebbe una variante di quella bovina. Ne danno ampia testimonianza le ossa e le mummie ritrovate in Egitto, nell’antica Grecia e in Etruria. Colpendo prevalentemente i polmoni e lo scheletro (il tessuto che si conserva meglio) si comprenderà perché abbondano così tante testimonianze. Nelle Americhe fu un regalo che i conquistadores portarono ai nativi, che gentilmente ricambiarono con la sifilide allora sconosciuta in Europa.
L’ultima infezione che per così tanto tempo ha funestato l’umanità è la lebbra. Purtroppo, essendo una malattia che colpisce in prevalenza la pelle, le testimonianze sono soprattutto scritte e risalgono ai testi dell’antica medicina indiana (600-400 a.C.), alla Cina (400 a.C.) e al Vecchio Testamento. Tuttavia, per l’ampia diffusione che ebbe in Europa, non mancano dei crani caratteristici della facies leprosa: atrofia delle ossa nasali e mascellari e perforazione del palato osseo. Anche qui il germe è un batterio: il micobatterio della lebbra che si sarebbe differenziato come mutante da un micobatterio dei ratti. In Europa arrivò nel III secolo a.C. e raggiunse una tale diffusione che ne fu colpito un individuo su 200, tanto che le autorità si videro costrette a rinchiudere gli ammalati in appositi ricoveri, i lebbrosari, per arginare il diffondersi del contagio.
La considerazione finale che si può fare, dopo questa estrema sintesi del nostro passato… pandemico, è il ciclico e persistente confronto con patogeni che fanno parte della natura e che per svariati motivi (mutazioni favorevoli, condizioni ambientali, promiscuità e stili di vita) e una necessità di sopravvivenza e replicazione (i due imperativi darwiniani che guidano l’esistenza di ogni essere vivente) si rivoltano contro gli esseri umani e ne sconvolgono la biologia, provocando la malattia. Ciò è capitato e capiterà sempre, anche per un altro motivo: i governi non investono mai abbastanza in prevenzione (si vede con terremoti, alluvioni, esondazioni) perché un evento possibile in un futuro non prevedibile non solleciterà mai quegli investimenti che nel presente servono a sostenere una politica di pura autoreferenzialità, rimandando così ai successori l’onere di affrontare i danni di una catastrofe, ambientale o sanitaria, quando capiterà.
Eccellente, compendiosa ed efficace pagina divulgativa. Complimenti vivissimi.