Gli industriali italiani, quelli che si riconoscono nella loro maggiore organizzazione, la Confindustria, scalciano perché vogliono riaprire i cancelli delle fabbriche temendo che la chiusura prolungata possa far loro perdere posizioni competitive sia nel mercato nazionale che in quello internazionale visto che in altri paesi, europei e non, le attività produttive non si sono fermate del tutto. Protestano usando toni “minacciosi”, formulando previsioni cupe sullo sviluppo economico che vedrà ancora una volta l’Italia in una posizione sfavorevole per colpa, a dir loro, di politiche sbagliate. Gli fanno da cassa di risonanza pseudo esperti e politicanti vari che si sono messi sull’attenti e che ora scendono in campo per sostenerli mostrando uno scarso livello di autonomia. Era inimmaginabile una interruzione di tante attività per la produzione di beni e servizi così come è stato necessario fare ma, per affrontare la fase che seguirà, è utile fare una riflessione sul nostro “sistema paese”. Sono decenni che la questione economico-industriale è stata affrontata in modo mono-tono: l’unica strada percorsa per mantenere le posizioni competitive nel mercato globale è stata quella di perseguire la massima flessibilità nell’uso del fattore umano: libertà di assumere e licenziare, libertà retributiva con una varietà incredibile di salari e stipendi per lavoratori che svolgono lo stesso ruolo e la stessa mansione (a volte anche nello stesso posto di lavoro), e una flessibilità operativa funzionale nelle mansioni, turnazioni e nell’organizzazione. Con investimenti tecnologici e organizzativi davvero minimi. Una linea che con caparbietà si è tentato, in parte con successo, di traslare anche nel sistema dei servizi, pubblici e privati.
Il paradosso è che l’affermarsi di questo “pensiero unico” sulle questioni economiche e sul lavoro ha sortito l’effetto opposto a quello atteso. Il sistema si è indebolito, si è frammentato, ha vissuto un processo di invecchiamento precoce tanto da mostrarsi incapace di reagire con la dovuta e necessaria celerità al presentarsi di turbolenze inattese e imprevedibili. Oggi la Confindustria guarda, per opportunismo, al caso tedesco dove le imprese, non tutte, sono riuscite a mantenere attivo il sistema produttivo ma ignora le carenze del nostro. In questi giorni l’INAIL – l’ente che gestisce l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali e che ha tra i suoi compiti istituzionali quello di definire i parametri tecnici e organizzativi per garantire la sicurezza sui posti di lavoro – nell’annunciare che sta elaborando nuovi parametri a cui sarà necessario adeguare tutti i luoghi di lavoro per evitare la diffusione di questo ma anche di altri potenziali virus, non ha perso l’occasione per evidenziare che molte, troppe, aziende italiane ancora non rispettano i parametri di sicurezza minimi sui luoghi di lavoro. Oggi ci siamo abituati al termine “distanziamento sociale” intendendo con ciò che bisogna evitare di stare troppo a contatto uno con l’altro, ma con gli stessi termini possiamo anche definire il comportamento di aziende e di dirigenti pubblici e privati che hanno operato un distanziamento sociale curando la bellezza e il confort delle sedi dirigenziali ignorando le condizioni di lavoro a cui erano e sono costretti migliaia di lavoratori. Con la stessa uniformità le imprese italiane e le multinazionali hanno scelto di delocalizzare lavorazioni, interi settori produttivi, in zone del mondo dove il costo del lavoro era ed è basso a volte prossimo alla schiavitù, non secondo una logica dell’economia politica classica, la specializzazione funzionale tra i diversi paesi, ma rincorrendo il costo del lavoro più basso. Quando l’inevitabile crisi e blocco del commercio internazionale sono scattati, si sono ritrovate senza semilavorati e nell‘impossibilità di concludere il processo produttivo.
Si può trovare conferma in queste forme di imbarbarimento del sistema industriale anche nel settore che fisicamente non è delocalizzabile: l’agroalimentare. Nonostante quanto la cronaca riporta ad ogni stagione di raccolta con i casi di morti atroci di lavoratrici e lavoratori costretti in condizioni di schiavitù, nonostante la retorica contro l’invasione di immigrati bianchi gialli e neri, oggi, con il blocco della mobilità internazionale, interregionale e intercomunale, con il conseguente maggiore controllo effettuato dalle forze dell’ordine sul territorio, c’è il rischio che la raccolta primaverile non avvenga, così come la preparazione del terreno e la semina perché non si hanno a disposizione le braccia, la competenza e la fatica di migliaia di nuovi “schiavi”. Su questo la ministra dell’agricoltura, Teresa Bellanova, si è espressa con chiarezza mostrando di voler finalmente intervenire con determinazione sulla questione, ma nessun segnale è pervenuto da parte di industriali e produttori agricoli o dalla grande distribuzione che continua, anche in tempo di emergenza, ad attuare politiche di acquisto seguendo regole speculative che puntano esclusivamente al massimo ribasso dei prezzi d’acquisto dei prodotti del settore agroalimentare. Ancora. Fino a qualche settimana fa si è continuato a discutere da parte dei luminari della geriatria a che età un italiano deve considerarsi anziano fino ad arrivare a formulare l’ipotesi che “visto l’allungamento medio della vita oggi in Italia si è anziani a 75 anni”. Su questi presupposti si è allungata la vita lavorativa e molti lavoratori, se nulla cambierà, rimarranno in attività fino ai settanta anni qualsiasi sia il loro mestiere e la loro mansione. Si ragionerà così anche dopo questa drammatica pandemia? Tutti vogliono ritornare a una “vita normale”, ma tutti sappiamo che molto è già cambiato e tanto dovrà cambiare a partire dal modo di lavorare. Agli industriali, e ai loro smemorati e superficiali servitori, facciamo un invito a riflettere seguendo il consiglio di Lev Tolstoj: “La saggezza nelle faccende della vita non consiste, mi sembra, nel sapere che cosa bisogna fare, ma piuttosto nel sapere che cosa bisogna fare prima e che cosa dopo”.