“È stato detto che la democrazia è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte quelle forme che si sono sperimentate fino ad ora”.
Winston Churchill
Poniamo “P” come data di inizio della pandemia di Covid-19; con “-P” indicheremo il mondo prima; con “+P” il tempo quando questa sarà finalmente sotto controllo. In mezzo c’è il nostro presente. Sono passati appena tre mesi dal momento “P” e la diffusione del Covid-19 è ormai indiscutibilmente planetaria il che ci concede la possibilità di svolgere alcune considerazioni senza il rischio di passare per portatori di infausti presagi.
Draghi, l’ex presidente della Banca Centrale Europea, il 26 marzo scorso in un intervento sul Financial Times, ha espresso con chiarezza il suo pensiero: il blocco delle attività produttive e le ingenti spese, che gli Stati stanno affrontando a causa della pandemia, necessariamente determineranno una modificazione delle politiche economiche e monetarie dei singoli Stati e delle organizzazioni internazionali. Draghi è economista di chiara fama e ha manifestato, nei lunghi anni passati prima alla guida della Banca d’Italia e poi della BCE, la sua convinzione sulla superiorità funzionale del sistema economico capitalistico basato sullo scambio di merci, sulla crescita competitiva delle imprese per produrre profitto, ma al contempo si è espresso sulla necessità di interventi di politiche economiche pubbliche. Ha utilizzato in svariate circostanze la moneta come strumento regolativo delle strozzature negli scambi che inevitabilmente il libero mercato ciclicamente ripropone ed è intervenuto per neutralizzare la nefasta speculazione finanziaria. La sua non è quindi una proposta di cambio nei modelli economici ma semmai un invito a usare e indirizzare in maniera flessibile i flussi finanziari. Per Draghi è indispensabile soccorrere la crescita del debito pubblico che questa crisi comporterà, lasciando inalterato il quadro economico produttivo fondato sul libero mercato. Chiede alla collettività (gli Stati) di assumersi i costi della crisi (maggiori investimenti e spese in quei settori indiscutibilmente pubblici) per rilanciare le dinamiche positive di produzione del profitto (dei singoli), e garantire con ciò la ripresa e la sostenibilità diffusa del benessere.
Il timore per queste forme di interventismo e il parossismo ortodosso nella fiducia estrema del laissez-faire applicato anche ai virus (immunità di gregge) hanno reso refrattari ai rischi del diffondersi della pandemia i capi di stato e di governo di alcuni Paesi leader dell’economia mondiale: Trump, il britannico Boris Johnson, l’olandese Mark Rutte e la teutonica Angela Merkel (tutti con la fissa dei vicoli di bilancio) fino a giungere al più basso livello delle gerarchie istituzionali come alcuni dei nostri presidenti di regione e sindaci. La sensazione è che questi “grandi” siano più piccoli di quanto vogliano far credere.
Il tempo “+P” sarà certo un tempo diverso dal tempo “–P”, e al momento possiamo solo fare esperimenti mentali per prefigurare nuove modalità di organizzazione e convivenza sociale. In ogni caso anche il più ardimentoso dei futurologi disponibili non ci risulta abbia immaginato un mondo senza produzione e consumo, senza scambio, senza imprese e senza lavoratori. I cardini del sistema economico nazionale ed internazionale, così come lo hanno conosciuto generazioni di donne e uomini che su questa terra hanno passato i pochi decenni che la loro natura biologica concede, non saranno in “automatico” ribaltati da una pandemia, ma sarà il gioco tra le parti, l’esito del conflitto tra interessi a volte contrapposti, a volte convergenti tra produttori, imprese e lavoratori, tra chi il lavoro lo offre e chi il lavoro lo chiede a determinare i nuovi scenari. E si spera con la più o meno sapiente mediazione della Politica.
La Politica, il grande nodo irrisolto che sta manifestando tutti i suoi punti di forza e di debolezza. Oggi gli Stati, nelle loro molteplici e differenti articolazioni ognuna diversa dalle altre, le organizzazioni internazionali, dalla UE all’ONU passando per tutte le altre distribuite nelle varie parti del mondo, sembrano essere governati da donne e uomini guidati da visioni pre-politiche, da capitribù, interessati a salvaguardare esclusivamente la propria comunità territoriale ed elettorale mentre intorno la foresta va in fiamme. Questa deficienza e cecità è un dato che accomuna i generali di grandi eserciti e le pulci dei loro cavalli come Viktor Orbán in Ungheria o Salvini nella Longobardia.
Su il Mattino del 30 marzo Isaia Sales scrive: “in queste settimane si è giocata anche una partita di potere e tra i poteri dello Stato”. Già una partita di potere dai profili bassi. Le “mancate azioni tentate” in Gran Bretagna, Olanda e USA per i loro infausti risultati hanno costretto i leaders a fare marcia indietro, e quelle praticate nel cuore dell’Europa da Orbán, che hanno affascinato alcuni presidenti delle regioni italiane, sono scelte e azioni che fanno intendere un’autosufficienza sulle proprie risorse e capacità. Alcuni si sentono invasi nei loro livelli di autonomia, declinata in termini elettorali, sentono di perdere i loro vantaggi e la presa sul territorio che la drammatica pandemia da Covid-19 può ingenerare, fermo poi invocare e pretendere un intervento e un finanziamento da parte di autorità superiori a sostegno delle loro scelte. È proprio in questo che alcuni governanti hanno mostrato la loro natura da capotribù. Non a caso le polemiche si sono incentrate su eventuali ritardi nella chiusura dei confini, sul non aver adottato provvedimenti di isolamento di questo o quel comune dove i casi di infezione si sono manifestati prima, sul contrastare azioni di coordinamento, ingenerando incertezza e timori in un momento che richiede rassicurazioni e tutte quelle azioni per sentirsi protetti da un reale e oggettivo pericolo. Un bisogno legittimo che può essere soddisfatto solo attraverso una grande cooperazione, lucidità e prontezza di interventi che assicurino al contempo protezione e coesione del tessuto sociale. Le polemiche senza un contributo propositivo sono un registro vecchio e stonato in questa inusitata emergenza. Pensare al dopo significa uscire da questa fase senza gravi lacerazioni sociali, che non aiutano ad affrontare la crisi e le difficoltà che la ripresa richiederà. Al momento le scelte politiche che si sono imposte e che si imporranno sono circostanziali, e in pericolo non sono i livelli di autonomia di governo e gestionali fin qui realizzati. Non è necessario essere chi sa quale grande statista per capire che cedere in una fase di emergenza livelli di competenza e di esclusività, condividere conoscenze ed esperienze, con i successi e fallimenti che possono derivare, non è segno di debolezza ma l’unico modo che abbiamo per uscire da questa crisi che ci attanaglia e ci rinchiude nelle nostre case, almeno quelli che ce l’hanno. (Purtroppo un atteggiamento osservato in alcuni scienziati, anche quelli con responsabilità gestionali pubbliche, che ostacolano il lavoro e la cooperazione nella comunità scientifica).
Sarebbe forse il caso che i politici tutti si ricordassero che le loro fortune nascono da un consenso elettorale che ha elementi di casualità, come casuale è la compagine governativa attuale sulla quale ricade il peso maggiore delle responsabilità sulla salute pubblica e sulla garanzia e rispetto delle libertà civili. I cittadini, costretti al chiuso nelle loro case, stretti tra l’angoscia del contagio e l’incertezza economica del presente e del prossimo futuro, non tollerano il ciarlare e le futili polemiche con gli avversari come se fossimo di fronte all’ennesima campagna elettorale. Riprendere il corso normale dell’esistenza, nel ricordo di quanti ci hanno lasciato, di quanti hanno sofferto e dei tanti che hanno lavorato per tutti noi, ci impone un rispetto e un contegno dignitoso per affrontare con nuova consapevolezza i giochi che ricominceranno nel tempo “+P”.
Scrive Piergiorgio Odifreddi in “Le menzogne di Ulisse”: “solo la sovraeccitata società capitalistica può pensare (e dire) che l’unico obiettivo importante è fare cose nuove: altrettanto, se non più, importante è far meglio quelle vecchie”.
Concetta Russo e Giuseppe Capuano
Al tempo P+ e forse ancor di più P++ ci ritroveremo in una società dove il distanzianento o isolamento sociale sarà ancor più acuito; assisteremo ad un impoverimento di interi nuclei familiari.
In questo momento al tempo P è diventata di importanza primaria la casa, bene necessario e non velleitario, chi ce la aveva ha potuto usufruire di un rifugio, chi invece sopravviveva tra una panchina di un parco o un posto sotto i famosi porticati di tante bellissime città italiane, non solo ha perso ciò che già non aveva ma ha dovuto rinunciare a condividere un pezzo di cartone su cui dormiva con un compagno di sventura.
La società moderna non è stata capace di contribuire al benessere collettivo, dove per collettività intendo ogni singolo individuo, ai bisogni fondamentali: la casa, il lavoro, il cibo…tutto è rimasto concentrato e a disposizione di pochi fortunati.
Allora mi chiedo non è forse giunto il momento di rinunciare ad un po’ di ciò che noi gente comune possediamo, a favore di chi nulla aveva e continuerà a non avere?
Non bisogna fare elemosina o mense per poveri, ma creare opportunità di lavoro; rinunciamo a qualche centinaio di euro, lavoriamo qualche ora in meno (che forse si è più produttivi), dedichiamoci maggiormente ai nostri figli e diamo lavoro a tutti.
Il reddito di cittadinanza trasformiamo in lavoro per la cittadinanza, abolendo e ripulendo le nostre città, le nostre campagne, creiamo laboratori e fabbriche di riciclo, diamo una altra vita a ciò che normalmente gettiamo via. Ritorniamo a produrre in casa nostra ciò che abbiamo delocalizzato, non gettiamo via ettolitri di latte, facciamone formaggio e distribuiamo gratis.
Dobbiamo ricostruire e rinascere dalle nostre stesse ceneri, costruire una società migliore, “fare cose nuove” e “fare meglio quelle vecchie” ma con una mentalità rinnovata all’interno degna del bene comune e quindi di tutti.