Il coronavirus ferma le proteste cilene

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“La nostra bandiera è da anni la protezione del nostro popolo, siamo coscienti dell’aggressività di questo virus, chiediamo dunque a tutti di restare a casa.” È stata proprio la Primera Línea cilena ad inviare un messaggio a tutti i manifestanti; la Primera Línea è formata da soprattutto da giovani, che da mesi rischiano la loro incolumità negli scontri contro i carabineros. Sono loro i primi a fare appello al buon senso comune. Il Cile si ferma, ma solo per il momento. Le manifestazioni che andavano avanti dal 19 ottobre 2019, per la prima volta, trovano uno stop. L’evento che tutti aspettavano – le elezioni per la nuova Costituzione, che si sarebbe dovuta svolgere ad aprile – è stato rinviato dal governo. La nuova data è quella del 25 ottobre. Il referendum è considerato uno dei principali successi dei vari collettivi e delle diverse organizzazioni politiche, che da mesi protestano contro il governo di Piñera.

Quell’insofferenza generale, iniziata lo scorso ottobre, ha lasciato grande incredulità agli occhi di tanti, convinti che il Cile fosse una delle economie più stabili dell’America latina. Il lungo petalo di mare,come lo descriveva il poeta Pablo Neruda, affronta ad oggi una forte crisi democratica. Una crisi che ha smascherato le profonde disuguaglianze della società cilena. Come ha scritto sul quotidiano “La Tercera” la giornalista Paulina Sepúlveda: “Non sono solo i 30 pesos”; l’aumento del costo dei biglietti della metropolitana è solo la goccia che ha fatto traboccare il Paese. Da anni in realtà i manifestanti cileni chiedono un miglior “welfare state”, riforme sociali più eque, una migliore distribuzione della ricchezza nazionale. Si chiedono più agevolazioni e miglioramenti per l’istruzione pubblica, per la sanità, un nuovo piano pensionistico. Il Cile di Piñera è una nazione nelle mani di enti privati, dove il bene pubblico e accessibile alle fasce più basse della popolazione sembra un miraggio. La società cilena sembra essere ancora quella pianificata dal gruppo di economisti, i “Chicago Boy”, durante la dittatura. Loro utilizzarono la formula “privatizzazione e riduzione dei servizi sociali”.

Sono tanti gli attori istituzionali coinvolti nelle denunce, tra i quali Amnesty International che da mesi monitora la situazione dei diritti umani nel paese latinoamericano. I numeri sono agghiaccianti e riportano alla memoria la dittatura di Pinochet. 28 i morti dichiarati a causa degli scontri con la polizia, più di 4.000 feriti. 770 denunce di tortura molte delle quali a carattere sessuale. Più di 400 persone hanno perso la vista a causa dei proiettili di gomma sparati dalla polizia. È chiaramente un bollettino di guerra. Il ritorno dei militari per le strade cilene ha fatto rabbrividire i tanti che hanno subito i sanguinosi trent’anni di dittatura. Proprio quella Costituzione infatti non è mai cambiata da Pinochet ad oggi. La coalizione di destra ha sin dall’inizio represso le proteste sociali. Il linguaggio del Presidente non ha aiutato a calmare gli animi. Frasi come “siamo in guerra” hanno incrementato notevolmente il numero di scontri e guerriglie urbane. Poi, il dietrofront provato dal governo, con la richiesta di un dialogo che, ad oggi, non c’è mai stato. La gravità della situazione la si evince dal fatto che il giudice Baltasar Garzón si sia recato a Santiago per accertarsi in prima persona della violazione di diritti umani, partecipando al primo Forum latinoamericano per i diritti umani. Per chi non lo sapesse, Garzón è il giudice che nel 1998 fece arrestare Pinochet a Londra. Inevitabilmente, in questo quadro sociale così complesso è tornata la paura dei desaparecidos; sono in tanti infatti gli arrestati di cui non si hanno ancora notizie. Il Cile con più di 5 mesi di proteste alle spalle, manifestazioni e piazze gremite, ha dato un forte scossone al sistema neoliberale in America latina. Questa determinazione popolare trova una blanda eco sulle pagine dei principali quotidiani europei. Ma i media mainstream non hanno potuto nascondere eventi come quello del 26 ottobre 2019, quando più di un milione di cileni hanno invaso le strade della capitale, marciando sino al luogo simbolo di questi mesi: Plaza de la Dignidad. La repressione non potrà essere una risposta a lungo termine, il popolo cileno ha già dimostrato di non voler cedere né alla paura né ai militari. Durante questi mesi di “distanziamento sociale forzato”, speriamo l’elite cilena possa cedere alle richieste di democrazia e uguaglianza. Una cosa è certa: superate le restrizioni del coronavirus, li ritroveremo nuovamente tutti in piazza. Per scoprire quale sarà il futuro del popolo cileno, non ci resta che aspettare.

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