L’Italia uscita dal fascismo e dal secondo conflitto mondiale era un Paese allo stremo, distrutto da una lunga guerra che lasciava tante macerie materiali e sociali, divisioni e distruzioni. Era un Paese da rifondare e da ricostruire non solo nelle case, nelle infrastrutture, nel tessuto industriale ed economico ma anche nel suo profilo morale e politico e dove la Resistenza aveva ridato dignità a un popolo e fondamento alla ricostruzione.
L’Italia di allora era anche un Paese solidale, dove famiglie che avevano poco aprivano le porte a chi aveva molto meno di poco. Dove la solidarietà era una prassi politica e sindacale, una precondizione per un internazionalismo rivoluzionario. Era il Paese dove il Pci, vincendo l’ostruzionismo della chiesa cattolica, con la sua rete assistenziale, e della DC e la diffidenza delle famiglie di origine, riuscì ad organizzare dal 1945 al 1951 un programma di ospitalità per circa 70 mila bambini, provenienti da quartieri più poveri e disastrati del Centro e del Meridione, da accogliere presso famiglie che assicurassero loro una casa, del cibo e un’istruzione per un periodo limitato.
I bambini vennero accolti non da famiglie ricche, ma da contadini e operai che aprirono le loro case offrendo il calore di una famiglia e dividendo quel poco che si aveva: «Non si aprono ville abbandonate dai ricconi ma il cuore e le case di onesti lavoratori…/E pasta nera / perché dove si mangia in sei si mangia anche in sette…», cantano i Modena City Rambles in Pasta Nera, colonna sonora dell’omonimo documentario che narra queste storie sbiadite in bianco e nero.
Sono vicende di un’Italia che oggi appare così lontana, dove mondi diversi entravano in contatto senza odiarsi, senza la paura dell’altro, del diverso, del povero. Dove la solidarietà non era fatta di “tolleranza”, intesa come “sopportazione”, ma di empatia, di condivisione, di fratellanza. Dove la politica univa, anziché dividere: «Siete tra amici che vi vogliono aiutare, anzi tra compagni, che è più che amici, perché l’amicizia è una cosa privata tra due persone e può anche finire. Tra compagni invece si lotta insieme perché si crede nelle stesse cose.»
Di questa Italia, e di questa vicenda in particolare, ci parla “Il treno dei bambini”, il bel libro della scrittrice napoletana Viola Ardone, pubblicato nel 2019 da Einaudi, già tradotto in 25 lingue e caso editoriale all’ultima Fiera del libro di Francoforte.
Il romanzo narra di Amerigo Speranza, otto anni e senza padre, con una madre taciturna («le chiacchiere non sono arte sua») che si arrangia facendo la sarta e arrotonda con i piccoli proventi del mercato nero organizzato dal suo amante Capa ‘e fierro. Amerigo a scuola non va, si scoccia di stare seduto tanto tempo a fare le mazzarelle e perché prende troppe scoppole dalla maestra. Ma il ragazzo è sveglio e conosce molte cose: infatti nel vicolo lo chiamano Nobel. Vive in strada, nei Quartieri Spagnoli, raccogliendo stracci e materiale dalla spazzatura, si arrangia con espedienti vari, come catturare le zoccole, mozzargli la coda e colorarle per poi venderle come criceti.
Poi nel vicolo arriva la voce di questi treni organizzati dai comunisti per portare i bambini in Alta Italia, in famiglie “ricche” che possono ospitare per alcuni mesi i bambini e sfamarli. Le monache e i monarchici mettono in giro la voce che i bambini saranno portati in Siberia per essere mangiati dai comunisti: «Da quando si è saputo il fatto dei treni, dentro al vicolo abbiamo perso la pace. Ognuno dice una cosa diversa: chi sa che ci venderanno e ci manderanno all’America per faticare, chi dice che andremo in Russia e ci metteranno nei forni, chi ha sentito che partono solo le creature malamenti e quelle buone se le tengono le mamme, chi non se ne fotte proprio e continua come se niente fosse, perché è ignorante assai.» Ma la disperazione e la fame hanno la meglio sulla paura e migliaia di bambini partono per terre sconosciute. Partono per amore «perché l’amore ha tante facce – come afferma Maddalena nel romanzo – E le mamme vostre che vi hanno fatto salire su questo treno per andare lontano, a Bologna, a Rimini, a Modena… non è amore pure questo? A volte ti ama di più chi ti lascia andare che chi ti trattiene.»
Amerigo, con gli altri bambini del vicolo, arriva a Bologna dove viene assegnato a Derna, una sindacalista non sposata che, durante la giornata, lo affida alla sorella Rosa e al marito Alcide. Nella famiglia ci sono già tre figli Rivo, Luzio e Nario e subito Amerigo diventa il quarto fratello.
Passate le prime paure (c’è sempre il timore di essere mangiato da comunisti che non lo fa dormire di notte), conosce parole nuove, la vita in famiglia, mestieri sconosciuti a Napoli, ritorna a scuola scoprendo di essere bravo in matematica e inizia a studiare musica con un violino fatto costruire per lui da Alcide, il papà emiliano. Ma il pensiero è sempre per sua madre Antonietta a Napoli, ama la famiglia emiliana ma sente un vuoto dentro che solo sua madre potrà colmare.
Dopo alcuni mesi, Amerigo torna a casa con il suo violino e le marmellate e i formaggi della famiglia emiliana, ma non riesce più ad adattarsi, si sente fuori luogo. I silenzi della mamma si fanno sempre più fastidiosi, la rinuncia alla scuola, alla musica, alla famiglia gli rendono angoscioso il ritorno alla vita precedente. Così come il ritorno agli espedienti per vivere, all’arrangiarsi per sopravvivere.
Il dolore del bambino è, inoltre, amplificato dal silenzio della famiglia emiliana: gli avevano promesso una lettera a settimana, gli avevano assicurato che non avrebbero reciso il cordone, che avrebbero mantenuto i contatti. Ma niente: pure loro sembrano essere troppo distanti, pure loro sembra che si siano scordati di Amerigo.
Quando scopre che la madre gli aveva nascosto le lettere, tante, che arrivavano dalla famiglia emiliana e che aveva venduto il violino regalatogli da Alcide, Amerigo decide di scappare per tornare al Nord. Stavolta è lui che corre alla stazione col cuore in gola senza voltarsi indietro e con un viaggio a ritroso si allontana per sempre dalla sua città, da una vita di stenti, da una madre silenziosa.
L’ultima parte del libro racconta, dopo 50 anni, il ritorno di Amerigo a Napoli per la morte della madre. Da quella sera non era più tornato nella sua città. Ora è un musicista affermato che ha troncato qualsiasi rapporto con i vicoli e quella città. Queste ultime sono pagine drammatiche, con un Io narrante adulto e maturo che segna un cambio di registro e di tono nel racconto di colpo diventato aspro, asciutto, malinconico, lento. E poi l’epilogo, che lascio al piacere della lettura del romanzo.
Nel racconto si possono riconoscere tanti protagonisti reali della vita cittadina napoletana e attivisti politici del secondo dopoguerra: da Maurizio Valenzi a Gaetano Macchiaroli a “Lenuccia” Cerasuolo, protagonista della Quattro Giornate, che nel libro diventa Maddalena Criscuolo.
Un romanzo coinvolgente, raccontato in prima persona da Amerigo, con un linguaggio fluente e aderente alla realtà, ricco di ironia, tenerezza e di carica emotiva. La storia di Amerigo è storia di miseria e di eroismo, della capacità di reagire di un’Italia che ha voglia di ricominciare, insieme e senza divisioni. «Questo è un Paese che ogni tanto ha bisogno di ricordarsi che ha fatto delle cose bellissime», ci ammonisce nel documentario Pasta Nera Luciana Viviani, figlia del grande commediografo Raffaele, partigiana, parlamentare del PCI, attivista dell’Unione donne italiane, fra le organizzatrici dei cosiddetti “treni della felicità” napoletani. Una pagina bella, anzi “bellissima”, della nostra storia che Viola Ardone ci restituisce dopo tanti anni con una freschezza affascinante, uno stile coinvolgente e una trama appassionante.