Dalle elezioni regionali di domenica 26 gennaio emergono importanti novità. Le ambizioni della Lega di Salvini escono fortemente ridimensionate. Il Movimento 5 Stelle passa dal clamoroso 32% di soli 2 anni fa a un modestissimo risultato a una sola cifra. Il partito di Zingaretti ritorna ad essere il primo partito anche se con percentuali molto inferiori ai suoi picchi positivi. Una regione, l’Emilia Romagna, rimane saldamente al centrosinistra e una, la Calabria, torna al centrodestra. In Emilia Romagna torna al voto il 67% degli elettori, segnando un più 30 rispetto alle precedenti elezioni regionali. In Calabria l’affluenza rimane stabile intorno al 47%.
Ci troviamo di fronte a una instabile dinamicità nell’orientamento dell’elettorato italiano? È questo il segno di una crisi del sistema democratico? A noi pare esattamente il contrario. Si conferma il consolidamento di una divisone verticale del Paese tra due grandi orientamenti, sinistra e destra, che passano comunque per un centro moderato. Scriviamo di orientamento perché ogni giudizio sulla vocazione bipolare ci appare una forzatura e gli stessi dati potrebbero essere utilizzati per dimostrare l’importanza di un sistema proporzionale che libera energie e dissensi senza opprimerli sotto la guida totalitaria di un solo leader. Questa seconda ipotesi potrebbe spiegare la tenuta del centrosinistra in Emilia Romagna, così come la vittoria del centrodestra in Calabria dove i partiti della coalizione vincente sono quasi tutti a pari merito.
Parlare di queste elezioni solo in termini di schieramenti nazionali sarebbe però un errore. Dai risultati così diversi nelle due Regioni emergono tutte le differenze territoriali di cui è composta la Repubblica. L’Emilia Romagna è terra ricca e potente, ben organizzata. La Calabria è terra infiltrata dalla malavita organizzata, potenzialmente ricca ma devastata nel territorio, con un sistema sanitario tra i peggiori d’Italia, un sistema di gestione della cosa pubblica stretto tra enormi debiti e altrettanti sprechi.
Zingaretti ha dichiarato subito che grande merito per il successo elettorale in Emilia Romagna va riconosciuto al movimento delle “sardine” che proprio da Bologna ha avuto origine. La sua dichiarazione non è “ammissione di colpa” di aver costruito a tavolino un movimento “ombra” a suo sostegno, come molti a sinistra e a destra lo hanno sprezzantemente etichettato, ma mostra la capacità di riconoscere che c’è un elettorato che si esprime anche e soprattutto disertando le urne quando non è convinto, quando non riesce ad esprimere le sue critiche alle leadership blindate, ma che è pronto a scendere in campo quando lo scontro è sulla tenuta del sistema dei valori fondativi della nostra Repubblica costituzionale. Ma, purtroppo, ciò è vero solo quando esiste una società civile forte e consolidata e, per questo, non è valso in Calabria. Dalla Calabria che solo due anni fa aveva regalato uno straordinario successo al M5S, sembrava emergere un nuovo volto politico di una terra martoriata alla ricerca di novità e di riscatto. Il risultato di domenica mostra quanto forse quel voto così inaspettato, per il modo stesso con cui quel Movimento è organizzato, per certi versi nascosto nel web, costruito intorno a reti fantasma che non hanno corpo nel territorio, fosse più che altro l’urlo di una Calabria zittita e oppressa, che non aveva e non ha poi avuto la possibilità di dar corpo a quel suo essere antisistema in quelle terre pervase da corruzione e malavita organizzata. L’unica cosa positiva è che anche in quella terra la Lega ha visto ridimensionate le sue aspettative.
Il risultato nelle due Regioni mostra anche quanto sia profonda la crisi del M5S con la sua schizofrenica linea politica. Al Governo il M5S ci sta da due anni grazie alla flessibilità dimostrata nelle alleanze in Parlamento ma poi, nelle competizioni elettorali territoriali, si ripresenta con l’ostentazione della sua presunta diversità che rende impossibile ogni alleanza, sconta la propria ambiguità culturale, né di destra né di sinistra, che si concretizza nel noioso e poco credibile richiamo alle sue origini antisistema.
Sta di fatto che nei territori la politica è costretta a parlare il linguaggio della concretezza, a misurarsi nella capacità di affrontare e risolvere problemi, a fare i conti con chi nel territorio domina in positivo o in negativo. Abbandonando il linguaggio dei commentatori nazionali, la differenza essenziale tra i pentastellati e le “sardine” è che i primi continuano a credere che l’idea di una politica virtuale, fatta occupando i social, sia vincente, mentre le “sardine” sono parte della società civile, sono, come rivendicano i loro promotori, un movimento costruito da persone che ogni giorno sono presenti nel territorio in mille e diverse attività.
A sinistra la strada da percorrere è ancora lunga e i segnali di ripresa pongono più interrogativi che risposte. Manca ancora molto alla fine “ordinaria” della legislatura e tante sono le questioni irrisolte a partire dal ruolo internazionale che l’Italia vuole giocare, compiendo scelte chiare per ricostruire processi di pace in Libia, in Medioriente e in tutte quelle parti del mondo più o meno a noi vicine, avendo il coraggio di schierarsi contro ogni politica guerrafondaia e per il rispetto dei diritti umani in Turchia, nel Kurdistan, in Siria, in Israele. Anche le questioni “domestiche” sono tutt’altro che definite: gestione dei flussi migratori, sicurezza interna, l’eterna questione della lotta all’evasione fiscale, la definizione di una politica economica e industriale in grado di affrontare le trasformazioni in atto che, se non governate, portano solo a disoccupazione e alla diffusione di povertà e diseguaglianza. Il Governo centrale dovrà fare la sua parte così come i partiti che dovranno confrontarsi in tante altre competizioni elettorali nei prossimi mesi, in Veneto, Liguria, Toscana, Marche, Campania e Puglia. A noi il messaggio uscito dalle urne appare chiaro: dove la società civile conta nelle istituzioni, la democrazia tiene, quando invece la società civile è chiamata a esprimersi solo nel momento elettorale senza un portato autonomo e consolidato, si perpetua l’esclusione e la subordinazione ai politici di turno. Ci auguriamo che Zingaretti e i suoi compagni di ventura, dentro e fuori il suo partito, lo abbiamo bene in mente e che al cartello “lavori in corso” aggiungano il simbolo del pericolo per non cadere nelle buche che essi stessi hanno prodotto.
Bravo Capuano! Siamo lieti dello scampato pericolo, ma fiduciosi che non si ripeta no. E fiduciosi in generale, purtroppo, ancora neno, fp