La donna sarà anch’essa poeta quando cesserà la sua schiavitù senza fine, quando avrà riconquistato per sé la propria esistenza (nel momento in cui l’uomo, che è stato fino ad allora ignobile nei suoi riguardi, la lascerà libera). – Arthur Rimbaud
Abolire la schiavitù fu il tema dell’America del XIX che divise gli Stati dell’Unione, quelli del Nord e quelli del Sud, dedito ancora allo schiavismo. Lincoln, allora, era Presidente e combatteva per liberare il paese da quello scandaloso e oltraggioso sfruttamento. Negli Stati Uniti d’America i primi movimenti delle donne nacquero ancor prima della guerra di secessione americana e lo stato di New York fu il primo, già dal 1799, ad emanare una legge per l’abolizione della schiavitù. Il 9 maggio del 1838 ebbe luogo a New York la prima Antislavery Convention of American Women: 175 donne, provenienti da un’ampia area geografica e da ben 10 stati differenti, si riunirono per la prima volta con un unico scopo, promuovere la causa anti-schiavitù e discutere delle regole del sistema abolizionistico americano.
Il movimento abolizionista aveva come primo obiettivo quello di porre fine alla tratta atlantica di schiavi. Quando nel 1860 ci furono le elezioni presidenziali, i repubblicani degli Stati Uniti, guidati da Abraham Lincoln, sostennero la proibizione della schiavitù in tutti i territori degli Stati Uniti. Gli stati del sud accolsero la proposta come una violazione dei loro diritti costituzionali e, poiché la loro economia era basata sul cotone e sugli schiavi che ci lavoravano, nel 1861 sette di loro uscirono dagli Stati Uniti e fondarono la Federazione. Lincoln da presidente durante un suo famoso discorso esplicitò la sua posizione: “Io non ho intenzione, direttamente o indirettamente, di interferire con l’istituzione della schiavitù negli Stati Uniti, dove esiste. Credo di avere il diritto legale di farlo e non ho volontà di farlo». Nessuna dichiarazione di guerra quindi ma un chiaro monito agli stati del sud. Gli sforzi per un compromesso fallirono e cominciò inevitabilmente la guerra, che portò con sé uno strascico di morte e distruzione.
Molti furono gli attivisti che difesero le ragioni abolizionistiche tra cui Sarah (1792-1873) e Angelina Grimké Weld (1805–1879), due donne statunitensi educatrici e scrittrici che sostennero l’abolizionismo e i diritti delle donne. Nate al sud si trasferirono nel nord dove cercarono di inserirsi raccontando le loro esperienze con la schiavitù, ma vennero spesso criticate a causa della loro origine e provenienza. Nel 1836 si trasferirono a New York e lavorarono per l’Antislavery Society dove incontrarono, rimandone estasiate, William Lloyd Garrison, direttore del giornale abolizionista The liberator e uno dei fondatori dell’American Antyslavery Society, che in un suo articolo del 1847 scriveva: “… la causa dell’anti schiavitù non si può fermare a considerare le grandi bugie dette, ma non ci può essere alcun dubbio sugli sforzi e i sacrifici delle donne, che hanno contribuito ad essa e avranno una posizione più onorevole e cospicua”. Le sorelle Grimkè scrissero anche molti opuscoli, tra cui “Appello alle donne cristiane del sud” nel quale incoraggiavano le donne a superare le leggi sulla schiavitù e parteciparono all’Antislavery Convention of American Women del 1838, a proposito della quale ritennero che la partecipazione delle donne di colore fosse cruciale per il successo della loro causa. Sarah Grimké inviò una corrispondenza scritta alle società anti-schiavitù femminile di Boston e Philadelphia, chiedendo di inviare delegate afroamericane. Alla fine, solo cinque donne di colore parteciparono alla convention. La frequenza limitata e il numero relativamente basso di donne afroamericane, arruolate in gruppi anti-schiavitù femminili durante questo periodo, dimostra le grosse e invalicabili difficoltà incontrate da queste donne che, oltre alle consuete barriere sessiste, incappavano anche in quella razziale. Si stima che le donne di colore non abbiano mai costituito oltre il 10% di presenza in nessuna società organizzata contro la schiavitù: molte donne di colore semplicemente non avevano le risorse economiche necessarie per fare il viaggio a New York e, anche se avessero avuto i mezzi, il viaggio e l’esperienza sarebbero stati pieni di discriminazione ed esclusione. Ad esempio, Julia Williams, un’attivista di colore di Boston, viaggiando con partecipanti bianchi della sua società, spesso fu costretta a mangiare i pasti separatamente dai membri del suo partito e le fu chiesto di rimanere in una pensione designata per gli afroamericani. Isabella Baumfree (1797–1883) suo malgrado e senza scelta nacque schiava, nota con il nome da lei stessa scelto di Sojourner Truth, fu una sostenitrice dell’abolizionismo negli Stati Uniti d’America e dei diritti delle donne.Isabella all’età di nove anni fu venduta all’asta per 100 dollari dal suo padrone John Neely, insieme ad un gregge di pecore.Nella sua vita fu venduta svariate volte, finché non fu data a John Dumont, che la concesse in sposa ad uno schiavo più vecchio, Thomas, con il quale ebbe cinque figli. Dumont aveva dato la parola ad Isabella che sarebbe stata libera un anno prima del provvedimento legislativo, ma non andò così e nel 1826 la donna decise di fuggire portando con sé la figlia minore. «Non sono scappata, perché ho pensato che fosse una cosa sbagliata, ma me ne sono andata perché credevo che fosse del tutto giusto.» Doveva aspettare ancora un anno prima che fossero emanate le leggi e si fosse concluso il processo. Gli ultimi schiavi a New York furono liberi dal 4 luglio 1827. La più grande emancipazione in Nord America fu celebrata da migliaia di uomini di colore con una parata a New York.Nel maggio del 1851 Isabella Baumfree interviene in un convegno per i diritti delle donne in Ohio e pronuncia il suo celebre discorso “Ain’t I a Woman?” (“Non sono una Donna?”). I primi rapporti del discorso furono pubblicati dal New York Tribune il 6 giugno 1851 e da The Liberator cinque giorni dopo. La frase “Non sono un uomo e un fratello?” era stata usata dagli abolizionisti britannici dalla fine del XVIII secolo per denigrare la disumanità della schiavitù. Questo motto maschile fu riutilizzato per la prima volta dalle donne nel 1820, poi nel 1830 il quotidiano americano abolizionista Genius of Universal Emancipation stampò su un’edizione l’immagine di una schiava che chiedeva “Non sono una donna e una sorella? Già nel 1833, l’attivista afroamericana Maria W. Stewart, per discutere dei diritti di tutte le donne, ricorse allo stesso motto ripreso poi come fonte d’ispirazione da Sojourner Truth che, consapevole della grande differenza nel livello di oppressione delle donne bianche rispetto a quelle nere, rivendicò la semplice verità di appartenere all’umanità chiedendo alla folla: “Non sono una donna?”.