Sergio e il suo mondo

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Disegno di Antonio Nacarlo

Napoli, 24 settembre 1943

Nel suo mondo fatto di giochi con gli amichetti Sergio De Simone, che aveva da poco compiuto sei anni, non sapeva cosa fosse la guerra. Sentiva parlare di cose lontane, di uomini cattivi ma, nella sua casa al numero 46 b in via Morghen, la vita era un susseguirsi di piccole routine quotidiane. Aspettavano il ritorno del papà, che era in marina, e quando la mamma lo prendeva per mano, sentiva il cuore battergli forte per la gioia. Poi, un giorno, tutto cambiò.

La guerra, la paura, i bombardamenti, eppure Sergio non capiva: perché dovevano andare via da Napoli? La mamma gli diceva di non preoccuparsi, ma lui vedeva nei suoi occhi un’ombra che prima non c’era. Così partirono per andare dalla nonna materna che viveva nella lontana Fiume. Quando arrivarono, Sergio accusò subito il cambiamento. La casa dei parenti era accogliente, anche se non era Napoli. Le strade erano diverse, il mare sembrava più lontano. La mamma parlava spesso sottovoce con i familiari, mentre lui giocava con le cuginette, Alessandra e Tatiana. Erano solo un po’ più grandi di lui e insieme si divertivano a rincorrersi nel cortile.

Poi arrivarono quegli uomini con le divise nere. “JUDEN!”, gli aveva sentito dire più volte, ma per lui era solo una parola. Non capiva cosa significasse davvero. Quei soldati non erano come suo papà, che vestiva da marinaio e gli sorrideva sempre. Questi non sorridevano mai. Uno di loro gridò qualcosa, e la mamma lo strinse forte, gli fece male ma il bambino non osava piangere. Perché li trattavano così? Perché dovevano salire su quei carri bestiame?

Nel vagone, stipato di persone, sentiva solo il rumore delle rotaie e il pianto soffocato degli adulti. Era confuso, spaventato, ma la mamma gli sussurrava all’orecchio: “Andrà tutto bene, amore mio, non avere paura”. Lui voleva crederci. Ma le giornate erano diventate tutte uguali: un lungo viaggio senza fine, un buio freddo che entrava in lui, un gelo mai conosciuto prima che forse veniva da un mondo diverso, un pianeta ostile dove non c’era posto per la gioia.

Quando il treno si fermò, arrivarono in un posto così diverso della sua amata Napoli. Grandi cancelli, filo spinato, uomini che gridavano ordini, cani che abbaiavano feroci. Sergio stringeva la gamba della mamma cercando nei suoi occhi un barlume di speranza, ma anche lei sembrava più smarrita di prima. “Auschwitz” sentirono dire.

Fu lì che incontrò il dottore che sorrideva, ma in un modo che faceva paura. Fu condotto via, insieme ad altri bambini, lontano dalla mamma, lontano da quel poco che conosceva del suo mondo.

Senti la voce della mamma mentre lo spingevano in fila: “devi essere forte bambino mio, promettimelo!” “Promesso”, rispose lui, guardando verso il nulla con la fiducia che solo un bambino può avere. Quella parola che aveva sentito dire tante volte, “JUDEN”, ora sembrava pesare nell’aria, anche se Sergio ancora non capiva il perché, adesso sapeva che era una colpa. La gelida baracca in cui fu alloggiato era zeppa di bambini con le teste rasate e i pigiamini a righe che si stringevano uno contro l’altro per riscaldarsi, Sergio corse loro incontro cercando un abbraccio che non gli fu rifiutato.

Poi arrivò il momento più terribile, quello in cui un uomo dall’aria gentile, con un camice bianco, li osservava come se stesse scegliendo qualcosa di cui Sergio non poteva capire l’importanza. “Der seine Mutter wiedersehen möchte?” (Chi vuole rivedere la propria mamma?), chiese quell’uomo con un sorriso che faceva sembrare tutto così amorevole. Sergio, senza pensarci, alzò subito la mano. “Mamma, potrò andare da lei?”, chiese con un filo di voce, mentre già lo portavano via.

E così, camminando con altri 20 bambini, Sergio si voltava ogni tanto, sperando di vedere il volto della mamma tra la folla. Ma lei non c’era. Intorno a lui non vedeva più niente di familiare. Era come se tutto il mondo si fosse ridotto a una distesa grigia di facce sconosciute, sguardi spenti e passi pesanti. I corridoi in cui lo portavano sembravano infiniti, come se ogni porta si chiudesse dietro di loro senza mai rivelare una via d’uscita.

Alla fine erano arrivati: una piccola stanza d’ospedale con 20 lettini identici. Sergio cercava il volto dei suoi compagni. Alcuni piangevano, altri erano troppo stanchi o terrorizzati per parlare. Sergio non riusciva a fare altro che ripetere nella sua testa: “Voglio la mia mamma. Dov’è la mia mamma?” Il buio intorno a loro si faceva più pesante. Poteva sentire solo il respiro affannato dei bambini vicino a lui. Dopo un tempo che sembrò infinito, un rumore metallico interruppe quel silenzio. La porta si aprì e un uomo entrò. Indossava un camice bianco, lo stesso uomo di qualche giorno prima, quello che aveva promesso di riportarlo dalla mamma. “Mamma? Dov’è la mia mamma?” chiese Sergio, la voce spezzata dal terrore. Ma quell’uomo non gli rispose, non gli rivolse neanche uno sguardo. Prese alcuni bambini per mano e li condusse via, mentre Sergio restava indietro, con il cuore che batteva forte.

Poi venne il suo turno. Lo portarono in una stanza più luminosa, ma quella luce era fredda, quasi tagliente. C’erano macchinari che non aveva mai visto prima, e il rumore dei ferri che si spostavano faceva salire in lui un’angoscia mai provata. Un uomo lo guardava, ma non con dolcezza o interesse, bensì con curiosità. Era il dottor Kurt Heissmeyer, uno dei tanti volti del male che Sergio avrebbe imparato a temere. “Non ti farà male, piccolo,” disse l’uomo in tedesco, ma Sergio non capiva. Le sue mani erano fredde, e quando gli toccò il braccio, sentì un ago entrare nella pelle.

“Mamma! Mamma, aiutami!” gridò Sergio, cercando di scappare, di liberarsi da quella stretta che lo teneva immobilizzato. Ma le sue braccia erano legate e nessuno lo ascoltava. L’iniezione gli dava una sensazione di vertigine, come se tutto il mondo si stesse sciogliendo intorno a lui. “Perché mi stanno facendo questo? Dove sei, mamma?” continuava a chiedersi, ma il mondo intorno diventava sempre più confuso. Il dolore iniziava a farsi sentire, un dolore che non poteva spiegare, che lo faceva piangere senza capire cosa stesse accadendo.

Le settimane seguenti furono una sequenza di incubi. Ogni giorno lo portavano via, e ogni volta c’era un nuovo esperimento, un nuovo strumento di tortura travestito da cura. E ogni notte, nel buio della baracca, Sergio sognava la mamma. La chiamava nel sonno, ma quando si svegliava, c’era solo il silenzio.

Un giorno, mentre era disteso su un lettino gelido, con i medici che lo circondavano, Sergio sentì di non avere più la forza di gridare. I suoi occhi si chiusero per un attimo e nel buio di quel sonno indotto vide il viso della mamma, che lo guardava dolcemente, come faceva sempre quando lo metteva a letto. “Rivedrò la mia mamma?” si chiese, sentendo le lacrime scendere sul viso.

E alla fine, quando l’agonia sembrava non avere più fine, Sergio alzò lo sguardo verso il soffitto. Il mondo stava diventando silenzioso, il rumore delle macchine lontano. Prima di addormentarsi ebbe solo un pensiero: “Mamma, sto arrivando da te”. Ma la morte non ebbe pietà di lui né degli altri.

20 aprile 1945, Amburgo, scuola di Bullenhuser Damm, sezione distaccata del campo di concentramento di Neuengamme.

Le giornate si erano fatte tutte uguali. Freddo, fame, dolore. La speranza, quella fragile fiammella che Sergio custodiva dentro di sé, sembrava spegnersi un po’ ogni giorno. Gli esperimenti continuavano e il piccolo corpo di Sergio era ormai esausto.

Quella mattina, però, qualcosa cambiò. Le guardie vennero a prenderli in silenzio, uno a uno, e li portarono fuori dalla baracca. Li condussero in una scuola abbandonata, un luogo che a Sergio ricordava le giornate spensierate di quando frequentava la scuola a Napoli, prima che tutto diventasse buio. Li misero in fila e il cuore di Sergio cominciò a battere più forte. Il corridoio era freddo, come tutto il resto. L’odore di paura permeava gli ambienti, anneriva gli occhi degli altri bambini. Nessuno parlava, nessuno si muoveva. Si fermarono davanti a una porta, e quando la aprirono, li spinsero all’interno. Una stanza buia. Un silenzio inquietante. Poi, senza preavviso, le guardie iniziarono a legare delle corde intorno ai loro colli. Sergio non capiva. Che sta succedendo? Pensava, il terrore che gli stringeva la gola. “Mamma, dove sei?”, sussurrò, mentre le lacrime gli rigavano il viso. Non ci fu risposta.

Il 20 aprile 1945, nel sottosuolo della scuola di Bullenhuser Damm, Sergio e gli altri bambini furono impiccati. I cadaveri vennero appesi al muro come quadri, quindi fotografati, l’oscena rappresentazione messa in scena solo per inviare una macabra cartolina d’auguri a Hitler per il suo 56⁰ compleanno. Non ci fu pietà, non ci furono parole di conforto. Erano solo bambini, eppure furono trattati come oggetti da eliminare.

Per decenni, il mondo non seppe nulla di loro. La madre di Sergio De Simone, Gisella Perlow, sopravvissuta all’orrore di Auschwitz, non conobbe il destino del suo bambino fino al 1983, quando finalmente venne alla luce la verità sugli esperimenti del dottor Kurt Heissmeyer e sulle atroci condizioni cui furono sottoposti quei piccoli innocenti. Sergio non vide mai più la sua mamma, ma la sua storia, insieme a quella di tanti altri bambini, continuò a vivere grazie alla memoria collettiva e alle ricerche che permisero di dare voce a chi l’aveva persa troppo presto. Oggi, camminando per le strade di Napoli, qualcuno si sofferma davanti a quelle piccole pietre d’inciampo, ricordi silenziosi di vite spezzate. Molti passano senza notarle, ignari del dolore che rappresentano, ma quelle pietre servono a non dimenticare. Né si potrà dimenticare la storia del nostro piccolo concittadino, il bambino che desiderava solo rivedere la sua mamma.

6 commenti su “Sergio e il suo mondo”

  1. Il suo impagabile articolo non riguarda soltanto eventi di ottant’anni fa, ma riguarda ciò che accade oggi in varie parti del mondo dove la disumanità è il vivere quotidiano. La storia del piccolo Sergio mi ha indotto a riprendere ancora una volta in mano Se questo è un uomo, di Primo Levi, per imprimere sempre più nella mia mente cosa può accadere, e accade, quando si smarrisce del tutto il significato d’essere uomini, persone civili, e si diventa mostri. Non è difficile diventarlo, e la nostra quotidianità ancora una volta ce ne dà la conferma. Per quanto sia triste la lettura di ciò che lei ha scritto, è necessaria per non dimenticare, perché solo la memoria rende liberi, come ha scritto Liliana Segre. Ancora grazie per il suo splendido articolo. Sergio Pollina

    1. Antonio Nacarlo

      Gentile dottor Pollina

      La ringrazio di cuore per le sue parole. Mi colpisce profondamente sapere che il mio articolo l’abbia spinta a riprendere in mano Se questo è un uomo, una delle opere più lucide e devastanti che la lettura abbia mai prodotto. Le sono grato per aver colto il senso più profondo di ciò che ho voluto trasmettere. È con commenti come il suo che mi rendo conto di quanto sia importante continuare a raccontare queste storie.
      Con sincera gratitudine, Antonio Nacarlo

  2. Roberta Serra

    Quindi adesso dovremmo piangere per un bambino morto 80 anni fa? Mi sembra assurdo. Il solito articolo strappalacrime che serve solo a manipolare i lettori più ingenui. È facile parlare della Shoah e fare le vittime quando oggi Israele sta bombardando Gaza, uccidendo bambini e civili innocenti! Mi sembra inopportuno difendere uno Stato che continua a perpetuare violenza e ingiustizia. Basta con queste storie commoventi per giustificare tutto ciò che fa Israele oggi. La verità è che sia gli ebrei che i palestinesi soffrono, ma chi difende Israele finge che la vita dei bambini palestinesi valga meno di quella degli altri.

  3. Antonio Nacarlo

    Grazie per aver espresso la sua opinione. Tuttavia, sento il dovere di chiarire una distinzione fondamentale. Israele è uno Stato, mentre gli Ebrei costituiscono un popolo, una cultura, un mondo millenario. Nel mio articolo non ho mai sostenuto che le vite dei bambini palestinesi, o di qualsiasi parte del mondo, valgano meno di quelle degli altri. Ogni vita è preziosa, e le sofferenze che si verificano oggi in Palestina sono tragiche e meritano la nostra attenzione. Detto questo, la mia onestà intellettuale mi impedisce di ignorare la lunga storia di persecuzione che gli ebrei hanno subito nel corso dei secoli, culminata nella tragedia dell’Olocausto, che è ciò che il mio racconto vuole ricordare. Una tragedia non ne giustifica un’altra, ma nemmeno può essere dimenticata o strumentalizzata.
    Onorare la vita di un mio giovane concittadino, vittima dell’Olocausto, non significa schierarsi sulle barricate ideologiche che sono sorte in questo periodo. Non è una questione di fazioni, ma di memoria storica e rispetto per chi ha sofferto. E se bastasse a far comprendere il dolore di queste persecuzioni, potrei anche gridare ‘Shema Israel!'”
    Buona giornata e continui a leggerci se le fa piacere.

  4. Sergio Pollina

    L’atroce morte di un bambino innocente, 80, oppure 800 anni, fa non può lasciarci indifferenti. Il tempo non cancella nè la memoria, nè il dolore. Il ricordo e la memoria delle stragi, Shoah compresa, non dovrebbero mai essere collocati nel dimenticatoio, a perenne monito contro la bestialità umana che a volte ne soffoca del tutto la componente umana. Le stragi non hanno colore nè etnia, sono soltanto atti efferati; altrimenti dovremmo dimenticare Piazza Fontana, Piazza della Loggia, l’Italicus, le fosse Ardeatine … Nè si può, ragionevolmente, addebitare ai cattolici d’oggi le stragi perpetrate dai loro correligionari del passato, ritenendoli colpevoli della strage degli Albigesi, della notte di San Bartolomeo, delle crociate in terra santa e tante, tante altre, oppure della morte sul rogo di Giordano Bruno, di Tommaso Moro, degli innumerevoli roghi dell’Inquisizione, dei Templari e delle “streghe”. Come opportunamente ricorda Antonio Nacarlo, non è da persone informate il confondere un’etnia con uno Stato o una Nazione. E mi permetto di aggiungere che è proprio questa confusione che sta all’origine delle tante atrocità che vengono commesse oggi in quelle terre del Medio Oriente!

  5. Raffaele Catania

    “se comprendere è impossibile, conoscere è necessario, perché ciò che è accaduto può ritornare, le coscienze possono nuovamente essere sedotte ed oscurate: anche le nostre” (Levi, Se questo è un uomo, 1947)

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