“In principio la terra era informe e vuota” … poi, man mano che trascorrevano le ere, cominciò a riempirsi di vegetazione, fino a che tutto il pianeta, oltre a mari, laghi, fiumi, ruscelli, fu tutto un verdeggiare di foreste, selve, boschi, giungle, praterie, che ne riempirono ogni angolo in uno spettacolo di incomparabile bellezza. Alla vegetazione fece seguito la vita animale; a milioni, creature d’ogni specie lo popolarono facendone un pianeta brulicante di vita, una vita che rese quel mondo ancora disabitato, un luogo in cui flora (dal nome dell’antica dea italica patrona della fioritura) e fauna (altra antichissima divinità della vita animale) la facevano da padrone. La coesistenza di queste due componenti della vita di allora – quella vegetale e quella animale, che prosperavano in perfetta simbiosi fra loro – diede luogo a quello che, a ragione, può essere definito un ‘paradiso terrestre’. Poi, sempre nella notte dei tempi, in quel mondo primitivo cominciò a farsi strada una specie nuova che, diversamente da tutte le altre, aveva due caratteristiche di enorme importanza: la parola e il pensiero; aveva fatto la sua comparsa la specie umana e con essa ebbe inizio, anche, il progressivo depauperamento di quella bellezza incontaminata. Per tutto il tempo in cui flora e fauna avevano convissuto da sole, e dominato incontrastate, niente era intervenuto a turbare il meraviglioso equilibrio esistente. Miliardi di animali che si nutrivano, si moltiplicavano e morivano, ne popolavano la superficie, non turbando in alcun modo quell’ordine, quella bellezza. Nessun rifiuto la contaminava, nessuna bruttura ne turbava l’armonia, e questo finché l’uomo, da molti considerato il culmine della creazione di Dio, non intervenne, riempiendola dei suoi scarti, delle sue città, deforestandola, sfruttandola, rendendo invivibile un luogo che per miliardi di anni nessuno aveva osato deturpare. Comparve l’uomo e con la sua comparsa cominciò a scomparire la bellezza.
Prima di proseguire è necessario, però, cercare di delineare e di definire ciò che intendiamo con bellezza. La bellezza non è mai stata qualcosa di assoluto e immutabile, ma ha assunto volti diversi a seconda del periodo storico e del paese: e questo non solo per quanto riguarda la bellezza fisica (dell’uomo, della donna, del paesaggio), ma anche per quanto riguarda la bellezza di Dio, dei santi, o delle Idee … [vedi Umberto Eco, Storia della bellezza, Bompiani, 2010]. D’altra parte, che cosa intendiamo quando parliamo di bellezza? Noi contemporanei, o almeno noi italiani, influenzati dall’estetica idealistica, identifichiamo quasi sempre la bellezza con quella artistica. Ma per secoli si è parlato di bello soprattutto per la bellezza della natura, degli oggetti, dei corpi umani, di Dio. Ed è la bellezza della natura la prima vittima del comportamento rapace e dissennato degli esseri umani che cominciarono ad abitarla, milioni di anni fa. Nessuna delle migliaia di specie animali che per un tempo immemorabile ne erano stati, a centinaia di miliardi, i soli suoi abitanti, aveva minimamente intaccato la sua bellezza, che è anche armonia, ordine, rispetto dell’esistente, a dimostrazione che la vita non è in alcun modo necessariamente collegata con il degrado dell’ambiente. Ma gli esseri umani, che pure a differenza di tutti gli altri viventi possedevano il dono unico della ragione, non sono mai riusciti a fare buon uso di questa facoltà, a dimostrazione che non sempre essa, la ragione, è sinonimo di ragionevolezza.
Ex abrupto, alla maggior parte delle persone dotate di senso del bello, chiediamo: cosa è più piacevole vedere, ammirare, ascoltare: la foresta amazzonica, o qualsiasi altro grande aggregato vegetale, rigogliosa e vivente di miliardi di forme di vita, che purifica l’aria con il suo respiro, e gratifica la vista con il suo panorama, o una moderna città industriale, priva di ogni forma di vegetazione, sterile, il cui cemento ha sepolto per sempre la fertilità del suolo, e i cui fumi ed emissioni rendono irrespirabile l’aria, mentre i suoi rumori, le sue cacofonie, straziano le orecchie?
Dicevamo che la bellezza non è mai stata qualcosa di assoluto e immutabile, e di essa, dei suoi canoni, si è discusso dall’antica Grecia fino a noi, con idee contrastanti e spesso conflittuali. Non per niente, attraverso i secoli si è fatto strada un proverbio che ancora oggi circola fra noi, cioè “non è bello ciò che è bello, ma è bello ciò che piace”, tratto da Le piacevoli e ridicolose semplicità di Bertoldino, di Giulio Cesare Croce, scrittore, cantastorie, commediografo ed enigmista del ‘600 italiano, a dimostrazione che il concetto di bellezza è soggettivo. Che la bellezza sia un piacere è cosa innegabile. La contemplazione di un paesaggio, l’ascolto di una sinfonia, la presenza di quel fiore nel giardino, così come l’ammirazione di un dipinto sono tutte esperienze che determinano in noi un certo godimento. In via preliminare si può pertanto affermare che una cosa è bella innanzitutto perché piace. Ma non tutto ciò che semplicemente piace è per questo definibile come bello e la definizione della bellezza in funzione del piacere richiede pertanto una caratterizzazione specifica di questo piacere. Il giudizio “questa rosa mi piace” non è in altre parole equivalente al giudizio “questa rosa è bella”, così come le esperienze da cui si originano questi due giudizi estetici non implicano la stessa tipologia di piacere.
Parlando della bellezza e del bello, non poteva non intervenire anche Immanuel Kant. In questa operazione di distinzione della bellezza da ciò che le è simile e che quotidianamente viene frainteso con essa è implicito il tentativo di recuperare e di garantire l’autonomia del campo estetico del bello. Un simile tentativo non può ignorare il risultato raggiunto nell’Analitica del bello della Critica del Giudizio estetico, per l’appunto saggio del grande filosofo tedesco. La bellezza rappresenta per Kant un predicato affatto particolare: non determina nulla dell’oggetto di cui è predicato, ma esprime qualcosa riguardo al soggetto stesso che formula il giudizio in questione. La bellezza è in altre parole il predicato di un giudizio che in primo luogo è un giudizio estetico, attraverso il quale quindi non si conosce nulla dell’oggetto rappresentato, ma viene piuttosto espressa una relazione con il soggetto percepente e in particolare con il suo sentimento di piacere.
Molto spesso noi identifichiamo la bellezza con l’arte, ed è corretto che sia anche così; ma nell’ammirare un’opera d’arte, frutto dell’ingegno umano, dovremmo anche chiederci da dove venga l’ispirazione di quell’artista che ha prodotto l’opera, il suo modello. Se, per esempio, guardiamo con l’attenzione che meritano alcune opere la cui fama ha attraversato i secoli, come il David di Michelangelo e la sua Pietà, o gli affreschi della Cappella sistina, non possiamo rimanere che estasiati di fronte a quei capolavori mai imitati. Si possono definire la quintessenza della bellezza. Ma spesso non si riflette sufficientemente sul fatto che essi sono soltanto una raffigurazione della realtà, o il frutto della fantasia dell’autore che dalla realtà trae la sua ispirazione. Ciò che si vuol dire è che se il David raffigura un uomo nello splendore della sua armonia delle forme, l’uomo che ne è necessariamente il modello è un prodotto della natura, dell’evoluzione, che Michelangelo non ha fatto altro che copiare, e così per tutte le creazioni immortali dei grandi artisti. Se ci colpisce, e giustamente, ogni particolare di quella statua gigantesca, come dovremmo considerare la bellezza incomparabile delle ali di una farfalla Macaone o di una Vanessa, che nemmeno il più grande dei Michelangelo o dei Leonardo sarebbe mai in grado di riprodurre? Oppure la bellezza incomparabile di un’orchidea Cattleya, o anche di un semplice fiore di campo?
Il senso di ciò che abbiamo voluto fin qui esporre è che la bellezza è in primo luogo non il prodotto dell’ingegno umano, ma l’originale essenza della natura che esisteva prima di noi e che (speriamo) esisterà anche dopo. E, se la bellezza è qualcosa da coltivare e custodire, allora noi, specie umana, siamo i meno adatti a svolgere questo compito, perché migliaia di anni delle nostre attività hanno dimostrato, inoppugnabilmente, esattamente il contrario. Fin qui abbiamo parlato della bellezza materiale, associata alla natura e all’uomo. Ma vi è un altro campo, infinitamente più ampio, nel quale argomentare della bellezza, ed è quello che attiene alla filosofia e che si occupa della bellezza interiore o spirituale, non raffigurabile nel marmo. Ad essa hanno dedicato opere imperiture Socrate, Platone e e molti altri. Ma bisognerà dedicarvi un altro scritto. Per il momento speriamo (spes ultima dea) che l’uomo si renda conto che egli ha l’obbligo di custodire e preservare una bellezza che non è opera sua, ma della natura e, per chi è credente, l’obbligo è ancora più cogente, in quanto preservando la bellezza si onora il suo autore che è colui che l’ha creata!