So di non sapere

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La scrittura e la lettura sono due attività di fondamentale importanza nella vita dell’uomo. Grazie a ciò che hanno scritto i grandi pensatori negli ultimi tremila anni noi, detentori di una sola vita, di durata limitata, possiamo trarre vantaggio da secoli di pensieri, riflessioni, acquisizioni, di ogni sorta, che spaziano da un estremo all’altro dello scibile, e questo senza dover minimamente spostarci o faticare, ma semplicemente sfogliando un libro. Senza la scrittura non avremmo mai saputo niente di Platone, Seneca, Socrate o Aristotele, o di Ovidio, Virgilio, Dante, o di Leopardi, Machiavelli, Locke, Hobbes, Montesquieu e migliaia d’altri senza i quali la nostra civiltà non sarebbe mai esistita.

Pertanto, possiamo affermare senza esitazione alcuna che la scrittura, questo strumento che ci permette di trasmettere anche a distanza di secoli cose ineffabili come i pensieri, è la più grande invenzione umana della storia.

Basta rifletterci per un po’. Noi oggi, quando sentiamo l’esigenza di nutrirci, la esprimiamo con la parola “fame” (nelle sue varie declinazioni nelle diverse lingue). Ma ci siamo mai chiesti com’è che, migliaia e migliaia di anni fa, uomini che vivevano nell’antica Mesopotamia scelsero di usare un determinato suono modulato che chiamiamo “parola” e che ci permette di trasmettere ad altri ciò che pensiamo e ciò di cui abbiamo bisogno? E, cosa ancora più importante, come fu possibile che una cosa astratta, un costrutto mentale, un concetto, un’idea, potessero essere trasformati in qualcosa di concreto, di tangibile, assumere una forma, essere trasferiti su un materiale scrittorio (argilla, papiro, ecc.) sì da poter essere portati a conoscenza di altri, anche a grandi distanze? Come scrive il noto storico e assiriologo Giovanni Pettinato nel suo I Sumeri (tascabili Bompiani, 2005): “Essi [i cittadini di Uruk] avevano altrettanto ben chiaro in mente, adottando il sistema della scrittura, il problema del trasferimento del pensiero e della parola che lo esprime in una nuova dimensione quale è lo scritto”. Ed è grazie a questa invenzione rivoluzionaria che popoli scomparsi da millenni risorgono e ci narrano nella forma più vivida la loro grande cultura, le loro vicende storiche, la loro religione, la loro economia. E, a proposito di religione, è solo leggendo le antichissime registrazioni sumeriche che oggi possiamo venire a conoscenza del fatto che quasi tutti i miti biblici, da quello della creazione al Diluvio, passando per il giardino dell’Eden e dalla consegna dei dieci comandamenti a Mosè, sono soltanto rifacimenti di miti e leggende che al tempo di Abramo esistevano già da secoli, e che costituivano il sistema di credenze sumerico moltissimo tempo prima che la Bibbia vedesse la luce.

Come dice Samuel Noah Kramer, studioso di fama mondiale nel suo I Sumeri alle radici della storia (Newton Compton, 1979): “A Sumer, un buon millennio prima che gli ebrei componessero i primi libri della Bibbia, e i Greci l’Iliade e l’Odissea, troviamo già tutta una fiorente letteratura comprendente miti ed epopee, inni e lamentazioni, e numerose raccolte di proverbi, favole e saggi”. E, sempre secondo Kramer, il primo “Mosè” non fu quello universalmente conosciuto come colui al quale Dio consegnò le sue leggi, ma fu preceduto da almeno tre altri “Mosè”. Si comincia con l’ultimo, Hammurabi (1800 a.C. circa), la cui famosissima stele (museo del Louvre) contiene i “dieci comandamenti” babilonesi, e si prosegue con il re Lipit-Ishtar, di un secolo e mezzo più vecchio, e si chiude con la tavoletta di Ur-Nammu (2100 a.C.), tutti e tre narravano leggende, miti, leggi e tradizioni che, con poche varianti, sono quelle che ritroviamo nella Bibbia ebraica.

Quindi, volendo semplificare all’estremo, uomini di decine di migliaia di anni fa, dovettero prima cominciare a ideare un sistema di suoni – le parole – che indicassero di comune accordo l’oggetto o la sensazione che si voleva definire, passando quindi dai grugniti e dalla gestualità alla coniazione di termini – loro consentita da un sistema di fonazione sprovvisto negli altri animali – che associassero un oggetto, una sensazione o un pensiero a quel suono. A ciò seguì, millenni dopo, il sistema della scrittura. Sull’importanza di scegliere simboli per indicare le parole, spiega in modo chiaro Giovanni Pettinato, dopo aver definito questo processo “di portata sconvolgente”: “Il simbolo scelto, intanto, a volte non ha relazione alcuna con l’oggetto indicato, segno chiaro che si è avuta una metafora logica verso l’astrazione; in altre parole … un sistema pittografico viene gradatamente sostituito da un sistema a carattere più propriamente ideografico, in cui cioè il simbolo grafico esprime un concetto astratto; il simbolo, inoltre, è strettamente legato al suono fonetico della parola intesa, sicché si impone la conclusione che la scrittura cuneiforme è frutto di un elaborato processo mentale che, ben a ragione, qualifica la sua invenzione come uno degli apici raggiunti dal pensiero umano”.

Ma la scrittura, rispetto alla parola è enormemente più recente, dato che la comparsa di nuovi modi di pensare e comunicare, che costituirono la Rivoluzione cognitiva, risale ad un periodo che va da 70.000 a 30.000 anni fa. Fu una mutazione di importanza straordinaria, in quanto consentì ai Sapiens di pensare in forme prima inesistenti e di comunicare usando nuovi tipi di linguaggio. Che cosa avvenne di tanto speciale nel linguaggio di noi Sapiens da metterci in condizione di conquistare il mondo? Lasciamo che ci fornisca la risposta Yuval Noah Harari che nel suo best seller – Sapiens, da animali a dèi. Breve storia dell’umanità (Bompiani, 2019) – afferma quanto segue: “Non si trattava, peraltro, del primo linguaggio esistente. Ogni animale ha un suo tipo di linguaggio. Tutti gli insetti come le api e le formiche, sanno come comunicare tra loro e lo fanno in modi sofisticati, informandosi reciprocamente sui posti dove si può trovare cibo. Né era il primo linguaggio vocale. Numerosi animali, comprese tutte le scimmie antropomorfe e non, ne avevano uno … I Sapiens sanno riprodurre molti più suoni distinti rispetto ai cercopitechi, ma balene ed elefanti posseggono capacità comunicative ugualmente impressionanti. Che cosa c’è, dunque, di così speciale nel nostro linguaggio? La risposta più comune è che esso è straordinariamente duttile. Possiamo connettere un numero limitato di suoni e segnali per produrre una quantità infinita di frasi, ciascuna avente un distinto significato”.

Ma, come abbiamo già detto, la capacità di produrre suoni con un significato, cioè le parole, creò un altro problema, ovvero quello della raccolta delle informazioni e della loro conservazione. Cosa necessaria già al tempo in cui si svilupparono le città di Uruk, Ur, Ninive e molte altre. Serviva poter tenere di conto i movimenti delle merci, del bestiame e molto, molto altro. I primi a superare questo problema, come abbiamo già visto, furono gli antichi Sumeri, che vivevano nella Mesopotamia meridionale e, come ci spiega Harari: “Fra il 3500 e il 3000 a.C. alcuni Sumeri, geniali ma rimasti anonimi, inventarono un sistema per immagazzinare ed elaborare le informazioni senza dovere tenerle a mente. Così facendo i Sumeri riuscirono a svincolare il proprio ordinamento sociale dalle limitazioni poste dal cervello umano, aprendo la strada alla formazione di città, regni e imperi. Tale processo di elaborazione dei dati inventato dai Sumeri è chiamato scrittura”.

Succintamente abbiamo cercato di tratteggiare la storia delle due maggiori invenzioni dell’uomo, quelle in base alle quali l’umanità è oggi quella che è. E, come tutte le creazioni della mente umana, il loro valore dipende dall’uso che se ne fa e la loro importanza è determinante in base ad esso. Prendiamo ad esempio l’energia atomica: se usata a fin di bene è di grande utilità per la società umana, essendo in grado di fornire energia illimitata per il progresso e le necessità umane; ma può anche essere usata come lo fu nella seconda guerra mondiale, per distruggere due città insieme ai loro abitanti. Anche la parola e la scrittura sono armi e il loro uso può essere decisivo se impiegato in un senso o nell’altro; non per nulla, infatti, sono stati coniati due motti che lo illustrano, quelli secondo i quali “ne uccide più la penna che la spada” (scrittura) e quello secondo cui “ne uccide più la lingua che la spada” (parola). Sono entrambe due verità lapalissiane e, facendo un salto nel passato, e riprendendo l’esortazione di una delle lettere di Paolo di Tarso, possiamo dedurne che è sempre stato così: “In conclusione, fratelli, tutto ciò che è vero e nobile, tutto ciò che è giusto e puro, tutto ciò che è degno di essere amato e onorato, che sa di virtù e merita lode, questo attiri la vostra attenzione” (Filippesi 4:8). L’esortazione di Paolo a parlare e a pensare solo a cose degne aveva una radice molto più antica: “Sotto i colpi della spada caddero molti, ma non tanti quanti soccombettero per la lingua” (Ecclesiastico 28:18). Anche quegli che è considerato il più grande saggio dell’antichità, re Salomone, nei suoi Proverbi affermò: “Morte e vita sono in potere della lingua, e chi l’ama ne mangerà i frutti” (18:21). Uno dei “fratelli” di Gesù Cristo, Giacomo, appropriatamente scrisse: “Così la lingua: è un piccolo membro, ma si vanta di grandi cose. Osservate: un piccolo fuoco può incendiare una selva immensa. Ed anche la lingua è un fuoco, è il mondo dell’iniquità (Giacomo 3:1-11).

Parole sagge, quelle di Giacomo, e per di più vere. La lingua, le parole possono infiammare, anche se non i boschi, gli animi. Quanti sono i capipopolo che, nella storia, hanno trascinato grandi folle con le loro parole, spingendole a gesti estremi; quanti i dittatori che, con parole piene di astio e livore, hanno sedotto le masse, facendosene incoronare loro condottieri! E, anche di recente, stiamo assistendo ad un uso della lingua, delle parole, che è indegno di ogni essere umano perbene. Alla guida del paese più ricco e potente del mondo si è candidato un uomo che peggior uso della lingua non potrebbe fare. Un uomo che si nutre delle sue stesse menzogne, arrivando perfino a crederci egli stesso, il cui eloquio è intessuto di tali e tante mistificazioni della realtà, che è perfino difficile comprendere come una mente umana possa scendere così in basso e che, se dovesse vincere la competizione elettorale, farà scendere l’America ancora più in basso di quanto già non sia oggi, periodo in cui, come dice Francesco Benigno, professore di storia moderna, “non c’è più fiducia nella Storia”, che viene sostituita da narrazioni arbitrarie ed emotive più accattivanti. Che le idee deliranti di Trump sulla “sostituzione etnica” che affliggerebbe l’America se dovesse vincere la sua avversaria, siano pronunciate perché egli, esperto imbonitore di folle lo sa, è che oggi, nelle università americane, il luogo dove si dovrebbe forgiare il sapere e la futura classe dirigente della nazione, “è diventata egemonica la narrazione identitaria, legata alla ideologia woke e alla cancel culture, che è l’abiura dello storicismo. L’idea di fondo è che solo storici appartenenti alla stessa identità dei soggetti indagati – colore della pelle, lingua, religione, perfino il genere – possano studiare le vicende dei loro antenati e non quelli appartenenti a idiomi e a fisionomie sociali e collettive differenti” (La storia al tempo dell’oggi, il Mulino, 2024). E così si sta spaccando sempre di più una nazione-continente, che non ha mai voluto o saputo dimenticare il suo passato razzista e schiavista e che avrebbe bisogno alla sua guida di persone che sapessero spegnere gli incendi e non, invece, alimentarli, come fanno i demagoghi alla Trump, per guidare il paese, come scrisse un suo presidente, Thomas Jefferson, ispirato da John Locke, “alla ricerca della felicità”. Sono veramente amare e sconsolanti le parole di Harari sulla condizione attuale della specie umana, condizione che parole insensate e gli scritti che ne derivano, hanno tradito il nobile scopo per cui la lingua e la scrittura vennero all’esistenza. Come dice nel suo imperdibile saggio: “Sfortunatamente il regime dei Sapiens sulla Terra ha prodotto fino a questo momento ben poco di cui possiamo essere fieri. Siamo diventati padroni del territorio che ci sta intorno, abbiamo incrementato la produzione alimentare, costruito città, fondato imperi. Ma abbiamo forse diminuito tutte le sofferenze del mondo? Più e più volte, i massicci incrementi della potenza umana non hanno necessariamente migliorato il benessere dei singoli Sapiens, e di solito hanno provocato immense sofferenze negli altri animali … Siamo passati dalle canoe alle galee, dai battelli a vapore alle navette spaziali e, – aggiungo io– dallo stilo di canna per incidere l’argilla al computer -, ma nessuno sa dove stiamo andando. Peggio di tutto, gli umani sembrano più irresponsabili che mai. Siamo dèi che si sono fatti da sé, a tenerci compagnia sono solo le leggi della fisica, e non dobbiamo rendere conto a nessuno. Di conseguenza stiamo causando la distruzione dei nostri compagni animali e dell’ecosistema circostante, ricercando null’altro che il nostro benessere e il nostro divertimento, e per giunta senza essere mai soddisfatti. Può esserci qualcosa di più pericoloso di una massa di dèi insoddisfatti e irresponsabili che non sanno neppure ciò che vogliono?”

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