Un tuffo nel passato

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Qualche giorno fa Mario Draghi, ex presidente della BCE, della Banca d’Italia e capo del Governo italiano nel 2020-2021, ha consegnato alla signora Ursula von der Leyen, presidente della Commissione Europea, un corposo Rapporto di oltre 300 pagine, contenente le sue proposte per riformare l’Unione. Nel presentarlo egli ha spiegato che “l’Europa deve salvarsi da una lenta agonia e lanciarsi in una sfida esistenziale”. Ora qui non vogliamo certamente riassumere i punti salienti del documento, disponibile in rete, ma ci preoccupa – e dovrebbe farlo seriamente – quando egli afferma che l’inazione nell’assumere le iniziative in esso contenute costringerà l’Europa a “sacrificare il suo benessere, il suo ambiente o la sua sicurezza”. Questa situazione, altamente drammatica per chi guarda la realtà delle cose, ci ricorda una frase celebre che fu attribuita a Giuseppe Garibaldi il quale, parlando con Nino Bixio nell’imminenza della battaglia di Calatafimi, gli disse: “Qui si fa l’Italia o si muore”. Non desideriamo affatto scadere nella retorica, ma la situazione attuale del continente europeo, che è sotto gli occhi di tutti, sembra realmente porci dinanzi alla stessa sfida che, nel 1860, si pose al nostro paese, concretizzandola in “Qui si fa l’Europa o si muore!”

Di Europa si parla molto, nel bene o nel male. Alcuni esponenti di partiti politici italiani e d’oltralpe manifestano una evidente intolleranza verso questo grande costrutto politico che è l’Unione e che realizzò il sogno di un progetto di unità europea di Altiero Spinelli, di Ernesto Rossi e di Eugenio Colorni nel 1941, nel periodo in cui erano stati confinati sull’isola di Ventotene per essersi opposti al regime fascista, contenuto nel cosiddetto Manifesto di Ventotene. Sogno che tre grandi personaggi del recente passato politico europeo tradussero in realtà. I tre personaggi erano Robert Schuman, Konrad Adenauer e Alcide De Gasperi. Fu nel 1950 che Robert Schuman, ministro degli esteri francese, propose una cooperazione politica tra Stati; erano i primi passi verso un’Europa unita, alla quale aderirono senza esitazioni gli altri due, il primo, cancelliere della Repubblica Federale di Germania, e il secondo, Presidente del consiglio italiano, ai quali si affiancò Jean Monnet, politico francese di grande prestigio. Questi tre politici, insieme ai rappresentanti di altri Stati, nel 1950 diedero vita a quella che a suo tempo fu conosciuta come CEE, Comunità Economica Europea, inizialmente costituita con il Trattato di cooperazione economica del 1957 da Belgio, Francia, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi e Germania occidentale, e siglato a Roma.

L’idea dei padri fondatori era un vero e proprio miracolo politico, un’utopia che diventava realtà. Per secoli l’Europa si era dilaniata e lacerata in guerre sanguinose, delle quali le ultime due, la Prima e la Seconda Guerra Mondiale, ne furono la conclusione più tragica. Bisognava che i popoli europei smettessero di farsi la guerra e unissero le loro forze per vivere in pace e prosperare. Gli autori del Manifesto sapevano bene quali difficoltà sarebbero insorte durante il difficile e asperrimo cammino, ma ciò nonostante conclusero così il loro Manifesto: “La via da percorrere non è facile, né sicura, ma dev’essere percorsa e lo sarà”.

Ma, cos’è l’Europa, da dove nasce l’idea stessa di questo continente? Fino a qualche tempo fa gli storici pensavano che nella lingua greca primitiva la parola “Europa” significasse “sole che tramonta”, ma è ormai accertato che ciò che i greci chiamavano Europa era semplicemente “il continente”, uno spazio che non era una delle loro innumerevoli isole. Ma, prima ancora che i greci la definissero geograficamente, Europa già esisteva nel mito e nella leggenda, leggenda scaturita dalla fantasia di Esiodo, nel VI secolo a.C., nella sua Teogonia, secondo la quale essa era la mitica figlia di Agenore e di Telefassa. Mentre coglieva fiori sulle coste della Fenicia, fu rapita da Zeus che, sotto forma di toro bianco, la portò a Creta, dove si consumarono le nozze. Europa era una principessa di rara bellezza che viveva a Tiro, sulle sponde asiatiche del Mediterraneo (in Libano). Zeus, il re degli dei, s’innamorò di lei e dal loro amore nacquero tre figli e grazie alla principessa il continente ebbe un nome: Europa.

Ma, come mai questo nome fu attribuito alla moltitudine di stati e staterelli che, da secoli, la compongono? Montesquieu definiva l’Europa come un unico stato composto da diverse province; unite sotto un unico nome, queste nazionalità “provinciali” scelsero collettivamente un mito che potesse definirle. Il mito scelto autorizzava l’egemonia voluta dalle nazioni, poiché la selezione di un mito rispetto agli altri denotava una certa superiorità immaginaria, un’implicita prerogativa imperialista conferita dalla mitologia scelta, un desiderio di conservare i diritti antichi che giustificava i diritti successivi. Atena che offre l’ulivo alla città di Atene, il figlio di Venere che concepisce i piani per la futura città di Roma, Ulisse che fonda la città di Lisbona, tutti miti che implicitamente prestavano prerogative divine agli ateniesi, ai romani e ai portoghesi. Il mito di Europa presa dal toro ha contribuito a definire lo stato collettivo immaginato da Montesquieu come una società esistente sotto l’egida di una figura fondatrice, Europa, scelta inter mulieres dal dio supremo dell’Olimpo. Quello dell’identità europea è un caso particolare. L’Europa è un concetto instabile, una configurazione geografica, demografica e politica le cui parti costitutive cambiano costantemente. L’Europa della Roma imperiale non era l’Europa di Dante; l’Europa di Erasmo e Cartesio non era l’Europa di Goethe. Secondo Voltaire, quando il nipote di Luigi XIV salì al trono di Spagna, il re, consapevole che la geografia è una costruzione immaginaria, esclamò: “Non ci sono più i Pirenei!”.

Abbiamo menzionato Dante. Sebbene molti possano dubitarne, Dante fu un antesignano dell’Europa, un poeta dallo sguardo lungimirante. Egli cercò di definire l’Europa, quel terzo di mondo tripartito di cui gli stati italiani, e la sua amata Firenze in particolare, facevano parte. Ed ecco come si espresse al riguardo nel De Vulgari Eloquentia: “In tutta quella regione che si estende dalla foce del Danubio (o Palude Meotide) fino alle coste occidentali dell’Inghilterra che è delimitata dai confini degli italiani e dei francesi e dall’oceano, prevaleva una sola lingua, anche se poi fu spezzata in molti volgari da slavi, ungheresi, teutoni, sassoni, inglesi e molte altre nazioni. Una sola traccia della loro origine comune rimane in quasi tutte, e cioè che in quasi tutte le nazioni sopra elencate per rispondere in modo affermativo si dice sì”. Il mito di Europa, quindi, inizia con un rapimento, ma finisce con un’affermazione, la traduzione da parte di Europa del desiderio di stupro di Zeus, nel proprio desiderio di fondazione, una traduzione del negativo in positivo, una traduzione di un No in un Sì.

Dopo questo “tuffo nel passato”, rimettiamo i piedi sul suolo d’oggi e, nella nostra succinta storia dell’Unione Europea, non possiamo trascurare un personaggio, Immanuel Kant che, con il saggio Per la pace perpetua, teorizza che il passaggio dalle soluzioni politiche dispotiche a quelle costituzionali avrebbe portato i Paesi a interagire in maniera pacifica, senza che nessuno Stato realmente avrebbe dovuto imporre la pace. Li “avrebbe portati” non per una volontà sovrana che impone, ma per una mutua convenienza che gli Stati stessi avrebbero riconosciuto non appena avessero imparato a interagire con il mezzo del diritto invece che delle armi” (Universale Economica Feltrinelli, 2019). Possiamo ben dire che due secoli dopo l’idea utopistica caldeggiata da Kant nel suo Per la pace perpetua, essa prese corpo per la prima volta con il Trattato di Roma. Finalmente dopo la carneficina della guerra si ebbero le condizioni per realizzare quell’utopia. Ma, per quanto possa sembrare strano, c’è chi si oppone alla realizzazione di questo progetto avvalendosi dei nazionalismi e dei totalitarismi. Il nazionalismo identitario è per l’esclusione; esso può creare anche le condizioni per pulizie etniche, assoggettamenti, violazione dei diritti umani fondamentali, espulsioni di massa, discriminazione; esso crea Stati chiusi e gelosi che in ogni momento possono decidere di attaccare o di espellere una minoranza per conservare o perseguire i propri (presunti) interessi o la propria “purezza”. L’interesse nazionale soprattutto vuole confini chiusi o governati da uno Stato centrale. In questa tradizione malata di nazionalismo, oggi abbiamo due dei suoi maggiori interpreti: negli Stati Uniti è il megalomane Trump, in Italia, molto più modestamente, il “patriota” Matteo Salvini che grida continuamente “prima gli italiani”, un ritornello che ormai ha stufato, ma non avendo altro da dire di interessante o di intelligente (sarebbe pretendere troppo) ripete incessantemente senza accorgersi che quasi nessuno lo ascolta più. Ritornando al soggetto principale di questo nostro discorso, ovvero la necessità prospettata da Draghi di un nuovo “Piano Marshall” da 800 miliardi l’anno per salvare l’Europa da una lenta agonia e poi dalla sua fine, onestà intellettuale vuole che diciamo le cose come stanno. È un percorso a ostacoli, che viene descritto con grande acume da Andrea Bonanni: “Perché l’analisi su come i nostri governi nazionali abbiano sprecato gli ultimi vent’anni accumulando miopie, indecisioni, procrastinazioni e ritardi è tanto lucida quanto spietata. E chiunque conosca anche solo superficialmente la realtà di questa nostra Unione sa che le soluzioni radicali proposte da Draghi hanno ben poche speranze di essere adottate dai governi nazionali con la necessaria risolutezza. Ma questo, per usare le parole dell’ex presidente della Bce, vorrebbe dire «rassegnarsi ad una lenta agonia» … Resta il fatto che l’anamnesi e la diagnosi fatta dal rapporto sulla malattia del «paziente Europa» appaiono tanto gravi quanto incontestabili. Mentre la prognosi rimane aperta. O l’Europa saprà darsi un governo unico in politica estera, difesa, economia, commercio e industria abbandonando la regola dell’unanimità e, se necessario, lasciando indietro i ritardatari, oppure la «lenta agonia» resta l’unica soluzione possibile. Quella che lui ha posto, spiega Draghi, «è una sfida esistenziale». L’Europa saprà raccoglierla? Dubitarne è lecito. Oggi la UE appare in piena crisi non solo economica ma anche politica. Francia e Germania, le due forze propulsive che l’hanno spinta per settant’anni, hanno governi precari, sostanzialmente sfiduciati dagli elettori. L’Italia, che in passato ha saputo traghettare l’asse franco-tedesco verso decisioni difficili come l’Atto Unico o il Trattato di Maastricht, è sempre più isolata nella sua deriva sovranista. La stessa coalizione di centro-sinistra, che ha riconfermato la von der Leyen alla guida della Commissione, è attraversata da divisioni e sospetti. Tutto questo, secondo il pessimismo dell’intelligenza, rende difficile credere che una tale costituente politica possa o voglia abbracciare e realizzare il Manifesto Draghi”. Quest’analisi, tanto sconsolata quanto veritiera e aderente alla realtà, presenta però uno spiraglio. Con l’ottimismo che deriva dalla volontà si può riuscire a scorgere un’altra strada che trasforma in forza la debolezza del sistema. Così continua Bonanni: “Proprio la fragilità dei governi, e l’evidente smarrimento dei principali partiti politici, potrebbero favorire la leadership della nuova Commissione guidata da Ursula von der Leyen. Nessuno oggi, in Europa, ha in sé la forza per opporsi ad un piano di azione radicale che si presenta come l’ultima soluzione possibile per preservare lo stato sociale, salvare i valori fondamentali e riconquistare il consenso perduto. A partire dal dopoguerra, passando per la fine della guerra fredda, l’Europa è sempre andata avanti quando era più debole. Il Manifesto Draghi potrebbe essere la zattera a cui si aggrappano i naufraghi dell’attuale leadership europea. Il futuro, neppure tanto lontano, ci dirà quale strada prenderà la Storia dell’Unione, a partire dalla scelta dei commissari e dal loro esame in Parlamento, per finire con l’inevitabile riforma dei Trattati. A noi resta la curiosità di capire dov’erano e cosa facevano le nostre classi dirigenti mentre il mondo cambiava e ci voltava le spalle, senza neppure che se ne accorgessero, perse nella contemplazione del loro ombelico” (la Repubblica, 10 settembre 2024).

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