Il rapporto della nostra terra con il vino ha origini tanto antiche da sfumare nel mito. Nel XV secolo a.C. le fasce costiere delle attuali Campania, Basilicata e Calabria erano chiamate Enotria (terra del vino). Nella città di Napoli il rapporto con la vite è ancora precedente. In una delle tombe eneolitiche scoperte nel 1954 a Materdei, appartenenti alla “Cultura del Gaudo” e datate al III millennio a.C., furono ritrovati dei vasi contenenti varie semenze tra cui raspi e foglie di vite. Neapolis fu fondata nell’VIII secolo a.C. dai coloni Eubei della Calcide. Il territorio, già sede di un precedente avamposto cumano chiamato Palepoli, fu scelto per la ricchezza delle acque e per la fertilità dei terreni vulcanici. Sicuramente l’ecista (capo della spedizione) aveva portato con sé le sementi degli arbusti sacri agli dei elleni: la vite e l’olivo, sacri perché donati agli uomini direttamente dagli dei.
Il racconto mitologico racconta che Dioniso (Bacco per i latini) era follemente innamorato di un giovinetto di nome Ampelo. Figlio di Helios e di Selene (il Sole e la Luna), il giovane Ampelo era bellissimo e pieno di vitalità. Molte volte lottando con l’amante, Dioniso lasciava che vincesse per vederlo sorridere. Ampelo, mentre era impegnato a cavalcare un toro, fu disarcionato e ucciso dallo stesso infilzato dalle sue corna. Dioniso accorse disperato sul luogo dell’incidente, cercò di sanare l’amato con l’ambrosia (nettare degli dei) ma a nulla servirono le sue cure e le sue lacrime. Atropo (una delle moire), commossa dalla disperazione di Dioniso, trasformò il corpo di Ampelo nella pianta della vite, mentre le lacrime di Dioniso che avevano bagnato il suo corpo morto, mischiate all’ambrosia con cui aveva cercato di curarlo, si trasformano in una bevanda dal colore del sangue: il vino.
Napoli è una delle poche città al mondo a conservare ancora le viti storiche piantate da greci e latini. La particolare coltivazione sul terreno vulcanico, detta a “piede franco“, ha permesso agli arbusti autoctoni, nei millenni, di non essere ibridati. La precipua evoluzione della vite campana è bassa e robusta, tanto da non aver bisogno di “innesti rafforzativi”.
Tra i vini prodotti in epoca greca e ancora presenti sulle nostre tavole troviamo l’Aglianico, nome che deriva dal termine “Ellenikon” (greco) latinizzato in “Ellenico” dai latini e divenuto “Aglianico” in età aragonese per la lettura catalana dello iato “ll” in “gl”. Anche il vitigno della Falanghina è di epoca greca. L’origine del suo nome deriva dalla particolare disposizione degli arbusti, legati a tanti paletti simmetricamente piantati sulla rena dei Campi Flegrei che davano l’impressione di una formazione militare, la falange macedone o “falangae” da cui il nome del vitigno.
Vino principe dell’età Giulio-Claudia, tanto prezioso da essere destinato alla tavola degli imperatori, fu il Falerno. Gran parte dei poeti e scrittori latini, da Plinio a Marziale, da Orazio a Cicerone sino a Catullo hanno decantato ed esaltato le qualità di questo nettare. L’area di produzione era chiamata ager falernus, (dove viene prodotto tutt’ora) e corrisponde ai cinque moderni comuni di Mondragone, Falciano del Massico, Carinola, Sessa Aurunca e Cellole.
LaLacryma Christi invece è il vino prodotto con le uve autoctone del Vesuvio; le prime testimonianze della coltivazione di questa particolare vite risalgono al V secolo a.C. Le potenti radici di questo vitigno affondano nel terreno lavico, scuro e poroso, che ne determinano le sue caratteristiche olfattive e le sue peculiarità. Tante sono le leggende legate a questa ambrosia. La più diffusa vuole che il suo nome sia legato alle lacrime di Cristo e alla storia di Lucifero: si dice che Gesù, riconoscendo nel Golfo di Napoli il Paradiso rubato da Lucifero dopo la sua caduta, pianse lacrime copiose e dalle sue lacrime nacquero i vigneti che danno questo prezioso vino.
Alla corte dello Stupor Mundi, Federico II di Svevia, il vino di prammatica era il Fiano. Da un documento storico conservato nell’archivio di stato si evince che il re preferisse a tal modo questo vino, da farne trasportare migliaia di viti dal territorio d’origine nell’avellinese per impiantarle nella piana foggiana e seguirne lui stesso la vinificazione. Il termine fiano deriva dalla volgarizzazione del termine latino “Apiano” (attorniato dalle api). Così gli antichi definivano i grappoli di queste uve, talmente zuccherine da attirare interi sciami d’api nelle vigne. Quando salì sul trono di Napoli Carlo I d’Angiò, fu talmente colpito dalla bontà del fiano, da sceglierlo per trapiantarlo nelle terre acquisite in dote matrimoniale: la Provenza e le colline ad est delle Ardenne. Suo nipote re Roberto non volle essere da meno all’avo. Incaricò infatti il cantiniere di Corte, Louis Pierrefeu, di ricercare un nuovo vitigno degno di un sovrano, per impiantarlo nei possedimenti aviti. La leggenda narra che il povero Pierrefeu, sfinito dalla lunga e improduttiva ricerca, si appoggiò ad un albero di pioppo nei pressi della città di Aversa. Grande fu il suo stupore quando, alzando gli occhi al cielo, vide grappoli di uva all’altezza di quasi venti metri. Chiese allora ad un contadino di assaggiare il vino con tali uve prodotte. Il villico gli porse un bicchiere di Asprinio, chiamato così perché aspro e frizzante, leggero e tremendamente accattivante. Il cantiere di corte subito capì di aver trovato un tesoro. Consegnò ad un felicissimo re Roberto la vite che subito fece importare in Francia, nella regione ormai chiamata Campania per le coltivazioni di uve provenienti dalla “Campania Felix”. Nei secoli il termine si francesizzo in Champagne. Il Fiano e l’Asprino, dunque, sarebbero gli antenati del famoso Champagne francese iniziato a produrre solo nel XVII secolo.
Di origini spagnole ed importati dai regnanti aragonesi nel XV secolo sono il Biancolella, prodotto nella splendida cornice dell’isola d’Ischia e il Catalanescadi Somma Vesuviana. Ai celeberrimi e preziosi frutti di queste viti è legata una leggenda di amore cortese. Re Alfonso V s’innamorò di una bellissima fanciulla napoletana di nome Lucrezia D’Alagno. Essendo il re già sposato, non poté impalmare la donzella, ma la nominò Signora d’Ischia e di Somma Vesuviana. In suo onore fece piantare il secco e fruttato biancolella nell’isola verde per berlo gelato in estate nelle alcove del Castello. Il dolce e leggermente frizzante catalano, dalla maturazione tardiva, fu innestato a Somma per sorseggiarlo in inverno nel rifugio d’amore fatto costruire per Lucrezia, il Castello D’Alagno appunto (attuale palazzo Medici).
Il paese di San Leucio, bene tutelato dall’UNESCO, è ricordato soprattutto per il reale opificio per la produzione della seta voluto da Carlo III di Borbone nel 1778. Fu anche centro sperimentale di valorizzazione agricola, zootecnica e forestale il cui esempio più particolare fu la Vigna del Ventaglio, impianto ubicato tra la Reggia di Caserta e il Belvedere di San Leucio. Il vigneto modello fu voluto fortemente da re Ferdinando IV, appassionato di botanica ed agronomia, che decise di sfruttare la morfologia del terreno per dar forma ad una grande coltivazione dalla forma di un ventaglio, composto da nove grandi spicchi. In ciascuno di essi fece piantare altrettante tipologie di uve che avevano lo scopo di promuovere e valorizzare le migliori varietà allora coltivate nel Regno delle due Sicilie. Ogni spicchio era accompagnato dalla presenza di una grande lapide di travertino, in cui veniva descritta la tipologia e la varietà del vino. Collaboratore e creatore di tale progetto fu il grandissimo Luigi Vanvitelli, già architetto alla reggia di Caserta. Le cronache ci raccontano che il progetto si rivelò un piccolo successo: la vigna produceva esclusivi ed eccellenti vini, con una resa di circa 80 barili ogni anno, che lo stesso re faceva imbottigliare per farne dono ai dignitari in visita nella capitale. Racconta Alexander Dumas nel “corricolo” che ogni bottiglia, numerata e correlata da sigillo e blasone, era considerato un must have “per la parassitaria corte, che pagava caro prezzo pur di avere una bottiglia del vino imbottigliata dal sovrano in persona”.
Le nove qualità di vitigno piantate nel ventaglio erano il Piedimonterosso e quello bianco, il Procopio, il Pallagrellorosso e bianco, il Delfinobianco, il Siracusa rosso ed il Manduria.
In conclusione, il legame tra la Campania e il vino è una storia che si intreccia con le radici più profonde della nostra cultura e della nostra identità. Dalle origini mitologiche, che raccontano l’amore tra Dioniso e Ampelo, fino ai moderni vigneti che continuano a prosperare sulle terre vulcaniche, il vino è stato testimone di eventi storici, simbolo di convivialità e oggetto di venerazione. I vini campani non sono semplicemente prodotti da degustare, ma portatori di storie, leggende e tradizioni che attraversano secoli, arricchendo ogni calice con un sapore unico e inimitabile. La varietà dei vitigni, dal nobile Aglianico al fresco Fiano, dal profumato Falerno al leggendario Lacryma Christi, riflettono la diversità e la ricchezza del nostro territorio. Con la tutela delle tradizioni vitivinicole e il continuo impegno per la qualità, la Campania non solo conserva questo patrimonio ma lo proietta verso il futuro, invitando tutti a scoprire e apprezzare i suoi innumerevoli tesori enologici. Così, il vino diventa non solo un simbolo di festa e convivialità, ma un vero e proprio ambasciatore dell’amore per la nostra terra.
Il mio personale ed epicureo invito a cogliere le gioie della vita è tratto da un cartello esposto fuori alla celeberrima “Secentesca Locanda del Cerriglio”: «Magnammo, amice mieje, e po’ vevimmo, nfino ca stace ll’uoglio a la lucerna: chi sa’ si all’auto munno nce vedimmo! Chi sa’ si all’auto munno nc’è taverna!»
L’articolo mi ha davvero affascinato, non solo per le tante informazioni storiche e mitologiche, ma anche per come celebra le profonde radici del vino nella nostra terra.
Da cittadino del Vesuvio, mi sento particolarmente legato a queste storie e tradizioni.
Carissimo Raffaele è per me un vero onore aver aggiunto (forse) un piccolo tassello alla tua profonda cultura. Grazie sempre per i graditi complimenti.