Popolo sovrano?

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L’orchestrina continuò a suonare è il titolo di un recente libro di Claudio Bossi e Daniela Rota, che narra la triste vicenda del Titanic, il transatlantico “inaffondabile” che naufragò durante il viaggio inaugurale. Da quel drammatico episodio è invalsa l’abitudine di dire, quando qualcuno ignora un grave pericolo incombente, “lui balla mentre la nave affonda”. Questo tragico episodio è la metafora di ciò che sta accadendo oggi sotto i nostri occhi, nella quale la nave che affonda è il patrimonio più prezioso dell’umanità: la Democrazia. Ogni giorno di più ne vengono erosi gli spazi, il cui vuoto è subito colmato da forze che le sono opposte.

È ovvio che principalmente ci rivolgiamo al cortile di casa nostra, l’Italia, ma nel mondo interconnesso, diviso in blocchi e raggruppamenti di infiniti colori, non possiamo non interessarci anche degli altri paesi, perché ciò che accade loro ha inevitabilmente ripercussioni nel resto del mondo. La guerra di aggressione ingiustificata da parte dell’ex Unione Sovietica (ma poi non tanto “ex”) ne è un esempio lampante. Lo stesso possiamo dire della “più grande democrazia del mondo”, gli Stati Uniti d’America, che stanno attraversando uno dei periodi più difficili della loro storia di paese democratico. La democrazia è, secondo la celebre definizione di Churchill, “il peggior sistema di governo a eccezione di tutti gli altri”. Ovvio, quindi, che essa ha bisogno d’essere difesa, curata, accudita, perché è intrinsecamente fragile.

Purtroppo, nel nostro Paese si è verificato un caso particolarmente singolare che lo ha danneggiato profondamente nelle sue strutture democratiche fino alle fondamenta. Un grande giornalista come Moisés Naìm ha di recente scritto: “In Italia, per molti anni, un leader politico carismatico ha gravemente minato la fiducia nei tribunali e nei giudici. L’impatto è stato disastroso. Nei suoi 30 anni di vita pubblica, Silvio Berlusconi è stato processato per un’infinità di reati: evasione fiscale, corruzione, falsificazione dei bilanci delle sue aziende, abuso di potere e altro ancora. Nel 2008 Berlusconi ha dovuto affrontare contemporaneamente 12 cause penali e 8 civili. Invece di difendersi in ogni caso sulla base di fatti verificabili e di argomentazioni legali, Berlusconi ha sempre scelto di attaccare le istituzioni che lo indagavano. Invece di perdersi nei reconditi dettagli legali contro di lui, si è dedicato ad attaccare giudici e magistrati, definendoli comunisti corrotti e mettendo in dubbio la legittimità del potere giudiziario. Mentre era la principale figura politica del suo Paese, Berlusconi riuscì a trasformare il disprezzo per la giustizia in un valore fondamentale per la sua coalizione. In Italia essere «di destra» è diventato per molti un’identità basata sulla sfiducia nei confronti dei giudici, dei tribunali e dello Stato in generale. Quando la polarizzazione viene messa in atto screditando le istituzioni fondamentali dello Stato, diventa tossica. Quale italiano di destra sano di mente vorrebbe pagare le tasse quando il presidente del consiglio gli dice, giorno dopo giorno, alla radio e alla televisione, che le istituzioni che le riscuotono sono corrotte? Chi rispetterebbe la legge quando il premier sostiene che la legge stessa non è altro che un complotto comunista?” (la Repubblica, 15 giugno 2024).

Oggi più che mai i nemici della democrazia sono numerosi e agguerriti, fra i quali spicca il Populismo che nel nostro Paese, grazie all’avvento al governo del partito di destra di Meloni, si radica sempre di più fra l’elettorato. I movimenti populisti, si sa, sono insuperabili di denuncia, abilissimi nel suscitare adrenalina nel corpo sociale, ma molto meno ferrati nella capacità e volontà di fornire risposte. I movimenti populisti, man mano che crescono e si moltiplicano, confluiscono poi tutti nella definizione di “sovranismo”, e viene da chiedersi perché così tante società nazionali siano convinte di avere perduto la loro sovranità e vogliano riconquistarla. Le motivazioni e lo stile di tale rivendicazione cambiano da un Paese all’altro. I due maggiori partiti sovranisti italiani, per esempio, hanno priorità diverse e tratti diversi da quelli dei Paesi scandinavi. Il sovranismo americano, soprattutto dopo l’elezione di Donald Trump del 2016, non è quello ungherese di Viktor Orbàn o quello francese di Marine Le Pen. Ma tutti rappresentano società che hanno accumulato insoddisfazione e malumore contro le formule politiche e i principi economici che sono stati per molti anni le colonne portanti della loro esistenza. Tutti hanno un nemico a cui attribuire la propria infelicità, vera o presunta. E da quando la scelta dei governi è stata affidata a un numero più o meno grande di cittadini, la scena politica si è riempita di tribuni che propongono formule con cui garantiscono ai loro concittadini la maggiore felicità possibile, forse memori delle suggestive parole della Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti (4 luglio 1796), secondo la quale “tutti gli uomini sono creati uguali; che essi sono dal Creatore dotati di certi inalienabili diritti, tra questi diritti vi sono la Vita, la Libertà e il perseguimento della felicità”. A prescindere dal riferimento al “Creatore”, del tutto ovvio in una nazione di presunti puritani bigotti, che giurano sulla Bibbia perfino in tribunale per dare credibilità alle loro parole, anche questa dichiarazione si è con il tempo rivelata una mera dichiarazione d’intenti e null’altro. Basti riflettere sul fatto che in quel paese per altri quasi cento anni rimase in vigore la schiavitù a dimostrazione del fatto che non tutti in America erano considerati uomini, ma solo i bianchi, e solo a loro si applicavano quelle parole, finché Lincoln, nel 1865, la abolì.

Una delle tante risposte che possono darsi è quella che troviamo nel saggio di Emilio Gentile, storico di fama internazionale, secondo il quale “oggi quasi tutti gli Stati, i partiti, i movimenti politici si dichiarano democratici. Abramo Lincoln definì la democrazia «il governo del popolo, dal popolo, per il popolo». Nelle democrazie del nostro tempo le cose stanno proprio così? Sembra ormai che il popolo faccia da comparsa in una democrazia recitativa; entra in scena solo al momento del voto. Poi, nella realtà, prevalgono le oligarchie di governo e di partito, la corruzione nella classe politica, la demagogia dei capi, l’apatia dei cittadini, la manipolazione dell’opinione pubblica, la degradazione della cultura politica ad annunci pubblicitari. E se nelle democrazie attuali questi fossero tratti non contingenti ma congeniti?” Ma, per non lasciare il discorso a metà, e questa domanda senza risposta, Gentile così continua: “Parlando della decadenza del senso dello Stato e della democrazia non mi riferisco soltanto ai politici e ai governanti. È purtroppo un atteggiamento che sembra oggi diffuso fra la maggioranza della popolazione italiana, che nei confronti delle istituzioni democratiche, del governo, del Parlamento, della classe politica, dei partiti mostra la stessa sfiducia rilevata in altre democrazie occidentali dove il «demos è assente» e i cittadini sono «non-sovrani», adottando comportamenti conseguenti: abbandono dei partiti, indifferenza, denigrazione e disprezzo della classe politica e per la politica in generale, astensione dalle elezioni”.

Questa “apatia” dei cittadini, sempre più sfiduciati e quindi assenti nel momento “clou” della democrazia, ovvero le elezioni, ha portato molti studiosi a parlare di postdemocrazia, o di democrazia illiberale. “Fenomeni che stanno producendo, all’interno stesso delle democrazie attuali, una mutazione sostanziale verso un’accentuata riduzione del ruolo del popolo sovrano a mera comparsa in una democrazia recitativa, dove la vera sovranità, il potere, sarà concentrato nelle mani di governanti e potentati che al popolo sovrano chiederanno solo di partecipare, con il rito delle elezioni, all’approvazione delle loro decisioni” (Emilio Gentile, In democrazia il popolo è sempre sovrano: Falso! Laterza, 2016). Ciò accade continuamente nelle democrazie attuali. In Europa abbiamo il bubbone di Orbàn, negli Stati Uniti vi è stato il tremendo quadriennio di Donald Trump alla presidenza, e sui quali incombe lo spettro della sua rielezione.

Ma, oltre a questi nemici, ve n’è un altro, ben più temibile e agguerrito. E a spiegarci chi esso sia è un grande filosofo come Bernard-Henri Lévy, che a RepIdee 2024, tenutosi a Bologna il 16 giugno scorso, così spiegava al suo intervistatore: “Putin sta aggredendo le nostre democrazie per due motivi. Il primo è la vendetta per il crollo dell’Unione Sovietica. Lui è convinto che il sistema sia fallito a causa dell’America, dei dissidenti e, soprattutto, dell’Europa. Il secondo è l’ideologia. Putin crede in una nuova Europa che ridurrà le libertà, spianerà lo stato di diritto, e privilegerà i legami di sangue su quelli di cittadinanza. In questo schema rientra l’invasione dell’Ucraina, dove se Kiev è la prima linea, l’Europa è la seconda, usa anche il sostegno dei partiti di destra o di estrema destra. Putin, inoltre, sogna una grande alleanza con l’estremismo islamico, e siccome pensa che il principale ostacolo sia l’Europa, ecco che la Russia si fa in quattro per indebolire le democrazie, sostenendo le forze antidemocratiche”. In Italia il suo tentativo ha avuto successo grazie alla piena collaborazione di Matteo Salvini e del suo partito, dichiaratamente filorussi, e lieti di accettare sostegno economico dal loro “grande amico”.

Parlando, poi, del suo paese, la Francia, e del successo del Rassemblement Nationale, Bernard-Henri Lévy ha spiegato: “Le Pen è la somma di Meloni e di Salvini. Vuol dire che noi francesi non abbiamo imparato la lezione dall’Italia”. Egli spiega anche che “c’è un filo che tiene insieme l’avanzata delle destre in Europa, l’invasione dell’Ucraina, gli attacchi di Hamas e l’antisemitismo, un filo che risale a Putin e alla strategia del Cremlino per indebolire l’Europa democratica”.

Una chiosa all’intervento del filosofo è: “Siamo in emergenza e per quello che mi riguarda tendo la mano a chiunque difenda i diritti fondamentali della democrazia, chi difende in modo sincero la costruzione europea e il suo futuro, a chi ritenga che bisogna armare l’Ucraina e permetterle di vincere questa guerra e respingere l’armata fascista di Putin nelle sue caserme. È un errore dare per scontata la democrazia. Certamente la democrazia è difficile, non è naturale. Il grande errore è credere che la democrazia sia l’ordine naturale delle cose e la tirannia e la schiavitù un’eccezione. È vero il contrario. Se dovessi scommettere, una scommessa filosofica, l’ordine naturale delle cose è, e me ne dolgo, la volontà di potenza, la volontà di dominio, la volontà di ridurre altri in schiavitù. Il nostro errore è stato credere che l’Europa ormai era fatta, che andava nella direzione della Storia, che nulla la poteva più fermare” (vedi la Repubblica del 17 giugno).

Affermazioni pesanti ma, purtroppo, veritiere, perché, come dice Gentile, “anche la realtà degli Stati democratici dimostra come alla democrazia rappresentativa si vada gradualmente sostituendo una democrazia recitativa, dove i governanti espropriano il popolo della sua sovranità nel momento stesso in cui proclamano di essere i suoi più genuini e devoti rappresentanti”.

Queste parole riportano alla mia mente quelle dello storico Gaetano Salvemini, il quale nel 1952 affermò che “una democrazia perfetta «non è mai esistita in nessun paese di questo mondo. La democrazia è stata e sarà ovunque e sempre qualcosa di imperfetto, che deve sempre perfezionarsi»”.

Adesso, in volata finale non possiamo non tornare a battere sul tasto semper dolens: i cittadini elettori. Infatti in una democrazia, la personalizzazione della politica e del potere avrà esiti differenti a seconda che i capi investiti di un potere personale siano simili a un Roosevelt o a un De Gaulle, piuttosto che a un Putin o a un Erdogan. Ma, alla fine, finché i capi saranno eletti dai governati, dipenderà dagli elettori se vorranno continuare a essere sovrani protagonisti di una democrazia rappresentativa, oppure a ridursi a essere comparsa in una democrazia recitativa.

Purtroppo, e penso di essere in buona compagnia nel pensarla così, ciò a cui assistiamo è una progressiva, accentuata discesa del popolo sovrano verso una condizione che lo vede sempre più lontano dalla politica, assente alle elezioni, ostile ai governanti, sprezzante o indifferente verso i partiti, deluso e sfiduciato verso le istituzioni fondamentali dello Stato democratico. In altre parole, è il popolo a essere consapevole di non essere sovrano. E addirittura sembra che voglia rassegnarsi a non esserlo più!

Se il “popolo sovrano” fosse anche inclito, più che alle sirene della propaganda politica che ha ormai raggiunto livelli da cabaret, darebbe ascolto alla voce di due personaggi che, sebbene distanti geograficamente e temporalmente, pervennero alla stessa conclusione. Uno è Remy de Gourmont, scrittore francese della metà del XIX secolo; l’altro è Nicolàs Gòmez Dàvila, filosofo colombiano del Novecento. Il primo scrisse che “Il popolo non elegge chi lo cura, ma chi lo droga”, e il secondo che “I padroni del popolo saranno sempre quelli che potranno promettergli il paradiso”. Ma, ripensando al titolo di un vecchio film, Il paradiso può attendere, anche il popolo “sovrano” senza né trono né regno potrà attendere all’infinito la realizzazione delle promesse preelettorali che non si realizzeranno mai.

Se da quanto abbiamo esposto se ne traesse la convinzione che la democrazia è periclitante in tutto il mondo, non saremmo molto lontani dalla realtà, perché la sua salute dipende dalla qualità delle persone che scelgono i governanti, e soprattutto dalle persone che governano. Aveva uno sguardo lungimirante l’economista austriaco del secolo scorso, Joseph Schumpeter, quando avvertì che la prima condizione fondamentale per il funzionamento di una democrazia rappresentativa non difettiva “è che il materiale umano – il personale delle macchine politiche che, eletto al parlamento, di qui sale a funzioni di governo – sia di qualità sufficientemente elevata … dotato di qualità intellettuali e morali adeguate”. L’argomento che abbiamo scelto di trattare è inesauribile e si presta a molteplici punti di vista. Ci piace cogliere, in conclusione, quello di Sabino Cassese, giurista, ministro, giudice della Corte Costituzionale e persona specchiata, secondo il quale: “Mi viene spesso chiesto quale sia lo stato della democrazia in Italia. Tutti si aspettano un giudizio sulla partecipazione elettorale, sull’attenzione dei cittadini per la cosa pubblica, sulla vitalità dei partiti, sul funzionamento del Parlamento. Io, invece, comincio dall’altro lato della catena: la cura con cui vengono scelti i funzionari pubblici, il loro impegno nello svolgimento della funzione o del servizio pubblico, la soddisfazione dei cittadini per il funzionamento dell’amministrazione. Perché questo è il problema: raccogliere la volontà del popolo serve, innanzitutto, a servire il popolo stesso; chi dovrebbe farlo potrebbe anche badare solo ai propri interessi. Un impegno che ha preso tanta parte della mia vita di studioso, consigliere di ministri, ministro” (Sabino Cassese, La democrazia e i suoi limiti, Mondadori, 2017). Cassese, poi, si chiede: “È davvero il popolo che governa? Negli ordinamenti considerati democratici, le decisioni non sono prese dal popolo, per quanto lo riguardino direttamente, ma da un numero limitato di persone che agiscono come delegati del popolo … Questa componente è stata chiamata di recente epistocratica, nel senso che attribuisce il potere a coloro che sanno, ai competenti. Il già citato Joseph Schumpeter aveva osservato che in politica spesso non prevale la razionalità e che caratteristica di un governo democratico è la presenza di più élite in concorrenza tra di loro per la conquista del voto popolare. Studi recenti sono andati oltre, mettendo in dubbio la stessa componente democratica. Hanno posto in luce che i votanti sono per lo più ignoranti e disinformati, oppure prigionieri di bias cognitivi, per cui c’è da rallegrarsi se la partecipazione politica diminuisce. Moltitudini incompetenti, irrazionali o ignoranti prendono decisioni che gravano su tutta la collettività, esercitando un potere che non trova una giustificazione. La democrazia esclude dal voto i più giovani, ma lo riconosce agli incompetenti. Il suffragio universale tende a violare il principio di competenza. L’idea di eguaglianza politica (un cittadino, un voto) non va confusa con quella dell’eguale competenza. Da queste osservazioni vengono fatte discendere proposte varie di governi epistocratici, nei quali il potere politico è distribuito in proporzione della conoscenza o competenza”.

Una personale nota a margine: possiamo menar vanto del fatto che l’attuale Governo, come il Parlamento, rappresenta uno dei governi meno colti e preparati della nostra storia repubblicana. Non è necessario fare i nomi (sono troppi) di persone senza né arte né parte che occupano gli scranni più importanti della pubblica amministrazione. E, con questi uomini e donne al comando, per ritornare alle prime parole di questo articolo, il nostro Titanic, la nostra democrazia, si avvia con certezza contro l’iceberg che la farà affondare. Noi elettori abbiamo la grave responsabilità di eleggere un equipaggio, per rimanere in termini marinareschi, che abbia tutte le doti, le caratteristiche e le qualità per dirigere la nave verso approdi sicuri. Ricordiamocene, la prossima volta che andremo a votare, tenendo a mente ciò che disse Immanuel Kant nella Critica della ragion pratica: il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me.

1 commento su “Popolo sovrano?”

  1. elio mottola

    Condivido come sempre, con grande ammirazione, gli eccellenti spunti di riflessione che ci offre Sergio Pollina. Ciò vale anche per questo bellissimo excursus sulla sovranità popolare. Mi dissocio unicamente dalla stima per Sabino Cassese che ho condiviso fin quando non mi sono reso conto, attraverso le sue partecipazioni pubbliche (interviste, ospitate televisive) di una certa, ambigua fuga dalla realtà per affermare astratti, e comodi, princìpi giuridici. La stima ha poi vacillato dal momento in cui l’affabile giurista nostro corregionale, nato ad Atripalda, ha accettato la presidenza del comitato nominato dal Governo per la definizione dei famosi “livelli essenziali delle prestazioni” mantenendola anche dopo le dimissioni dei suoi colleghi Bassanini e Violante. Il colpo di grazia alla mia fiducia in Cassese lo ha dato la sua approvazione alla “madre di tutte le riforme”, cioè al premierato, resa in una recente intervista al quotidiano “Il Tempo” di proprietà di Antonio Angelucci deputato della Lega. I centonovanta giuristi che hanno sottoscritto l’appello di Liliana Segre sono evidentemente, ai suoi occhi, un branco d incompetenti o di faziosi. Qualche maligno sospetta che la sua adesione miri alla candidatura alla presidenza della repubblica: se così fosse, il machiavellico Cassese deve essersi prefigurata la bocciatura in sede referendaria della riforma da lui stesso sostenuta. Non si capisce infatti che soddisfazione gli potrebbe dare assurgere alla carica presidenziale, puramente figurativa, prevista dalla riforma stessa. Spero di sbagliarmi.

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