Nei giorni scorsi ha avuto inizio l’iter formale per l’approvazione della riforma della giustizia, parente stretta della “madre di tutte le riforme”. Le due riforme costituzionali, se dovessero entrare in vigore, diventerebbero, insieme, l’architrave della “terza repubblica” che non chiamiamo “delle banane” per non imbufalire il Lollobrigida.
Senza entrare nel merito della riforma, che diamo per conosciuta, dalle misure che il Governo Meloni intende adottare nei confronti dell’ordine giudiziario emerge subito una sorprendente anomalia: in un Paese in cui la politica è scesa al suo livello più basso, vediamo mettere in stato di accusa una magistratura che, settaria, svilita dalle correnti e inefficiente quanto si vuole, è certamente meno malata della politica. Un po’ come dire che “il bue chiama cornuto l’asino”. Basterebbe pensare al contributo di sangue che tanti magistrati hanno versato servendo, loro sì, la patria e confrontarlo con quello dei politici, sostanzialmente assente se si esclude Aldo Moro.
Di questa aggressione punitiva impressiona il fatto che ne siano alfieri due ex magistrati, Nordio e Mantovano, membri organici del Governo Meloni, ma soprattutto che la stia difendendo Sabino Cassese. L’affabile costituzionalista ci aveva sin qui insospettito per la sua permanenza alla presidenza del Comitato per i LEP (livelli essenziale delle prestazioni) malgrado le sopravvenute defezioni dei suoi ex colleghi magistrati Violante e Bassanini. Evidentemente le simpatie del prof. Cassese verso il Governo vanno ben oltre la conduzione del comitato tecnico che gli ha affidato, ma lo spingono addirittura, come da intervista pubblicata su “Il Riformista” del 31 maggio, ad augurarsi che la riforma sia approvata dai due terzi del Parlamento senza neanche arrivare al rischioso referendum popolare. Nordio, Mantovano e Cassese non sentono dunque alcun imbarazzo a collaborare con la parte più malata del nostro sistema istituzionale per umiliarne una meno guasta, capovolgendo disinvoltamente le più evidenti argomentazioni contrarie alla riforma manifestate dalla gran parte dei costituzionalisti. Così, il dato di fatto che le condanne nel giudizio di primo grado vengono spesso annullate in appello, costituisce per loro la prova del cattivo funzionamento della giustizia mentre invece è la conferma della capacità di revisione del giudizio che si realizza nell’arco processuale dal primo al terzo grado. Vorremmo anche che ci dicessero a chi imputano la presunta disfunzione: ai magistrati inquirenti, ai pubblici ministeri, ai giudici di primo grado o a quelli di appello?
Come se non bastassero le pericolose e scombinate modifiche all’intera struttura giudiziaria, la riforma rafforza scandalosamente la presenza e il ruolo della componente laica e di quella forense nella valutazione dell’operato dei singoli magistrati rilasciando all’una e all’altra una patente di superiorità morale del tutto ingiustificata ed inaccettabile. Verrebbe voglia di chiedere ai nostri concittadini se si fidano più di un magistrato, di un avvocato o di un politico.
Nell’ottica della più sprezzante sopraffazione va ricordata anche la proposta oscena di sottoporre chi vuol fare il magistrato ad un esame psicoattitudinale. Insomma una riforma con cui la Meloni erige un monumento alla memoria di “zio Silvio”, ma posa anche la prima pietra nella costruzione di un parafulmine a copertura dei futuri, possibili abusi imputabili ai componenti la maggioranza che la sostiene.