È giusto occuparsi di tanto in tanto anche della pagliuzza che stuzzica appena un po’ l’occhio, alla quale abitualmente ci affidiamo, lasciando da parte la trave che occlude la vista alla stampa di regime. Non ci è piaciuto il risentimento manifestato da Enrico Mentana a seguito della lamentela, discutibile nella forma, forse ironica ma forse soltanto ingenua, pronunciata da Lilli Gruber in merito ai quindici minuti di ritardo con cui il TG7 ha ceduto la linea a “Otto e mezzo”, programma di approfondimento condotto dalla giornalista altoatesina. Mentana poteva lasciar correre l’accusa di incontinenza che si riferiva evidentemente alla sua presenza sullo schermo e non allo spot che pubblicizza un farmaco contro l’incontinenza fisiologica maschile, mandato in onda subito prima che la parola passasse alla Gruber.
Ciò senza nulla togliere alla sperimentata professionalità di Mentana, autore di un notiziario serale che fa giustamente ottimi ascolti forse anche per il taglio narrativo che il conduttore gli ha impresso introducendo o commentando i singoli servizi di cronaca. E tuttavia non possiamo nascondere la sensazione che Mentana viva con grande piacere l’esposizione televisiva. Ne danno prova le immancabili maratone, anche notturne, da lui dedicate a tutte le tornate elettorali, in esse comprese anche quelle regionali e comunali di maggior rilievo. Né possiamo dimenticare la confidenza disinvolta con cui ha trattato per anni l’inviato Paolo Celata stimolandolo ad inseguire il personaggio politico da intervistare e commentando con benevola ironia ogni insuccesso del povero Celata. È vero, un precedente c’è e molti lo ricorderanno. Negli anni dell’apoteosi berlusconiana il fido Emilio Fede dal suo scranno di Rete4 istigava un altro Paolo, Paolo Brosio a lunghe attese tra i binari del tram della “Milano da bere”, forse ormai già bevuta, per intervistare il personaggio pubblico di turno. Lungi da noi ovviamente ogni intenzione di paragonare Mentana a Fede, la cui uscita di scena è stata quantomeno ingloriosa, né Paolo Celata a Paolo Brosio, finito nel novero di quelli che hanno visto la Madonna o giù di lì, beati loro.
Dopo questa amena divagazione la cui ragion d’essere è peraltro venuta meno, com’era prevedibile tra due professionisti seri, è doveroso fare una capatina nel campo avverso, cioè nella stampa di destra, per segnalare come, in un ampio servizio dedicato alla carriera di Antonio Angelucci, pubblicato da la Repubblica col titolo “L’uomo nero”, ci si informa che nel bilancio più che positivo della Finanziaria Tosinvest, attraverso la quale il deputato della Lega opera nell’edilizia e nell’editoria, figura una posta passiva di 239 milioni di euro in corrispondenza della gestione delle tre testate da lui controllate, “Il Giornale”, “Libero” e “Il Tempo”. La consistenza di questa passività certifica, com’era facile sospettare, che i tre quotidiani non perseguono scopi di lucro (nel qual caso sarebbero stati già chiusi o ceduti da anni) ma sono semplicemente organi di propaganda politica. A chi avesse ancora dubbi in proposito segnaliamo, come esempio molto significativo, che all’indomani della tragedia di Casteldaccia nella quale avevano perso la vita cinque lavoratori, tra tecnici e operai, mentre i “giornaloni” del 7 maggio davano il dovuto risalto alla notizia occupando gran parte della prima pagina, Il “Giornale” dell’angelico Sallusti ne sintetizzava il titolo in un minuscolo occhiello collocato quasi a fondo pagina. La prima pagina di “Libero”, diretto splendidamente da Mario Sechi, già portavoce della premier Meloni poi destituito, non ne parlava affatto dedicandosi invece al presunto flop, molto presunto anzi totalmente falso, dell’astensione dal lavoro delle giornaliste e dei giornalisti RAI che aveva invece toccato il 75%, anche se parzialmente neutralizzata dalla messa in onda, sia pure in forma ridotta, del TG1 e del TG2, realizzata con l’aiuto del neonato sindacato interno di destra a cui si è iscritto anche Bruno Vespa, bisognoso di protezione. Prime pagine come queste e le tante altre che le hanno precedute negli anni configurano una forma anomala, indiretta di finanziamento dei partiti.