Già da tempo stigmatizziamo, dalle pagine di questo giornale, la faziosità sfacciata di certa stampa di destra, in particolare dei quotidiani di proprietà del deputato di FdI Antonio Angelucci (Il Giornale, Libero e Il Tempo) nonché del più virulento di tutti, La Verità oggi nelle mani di Maurizio Belpietro, socio di maggioranza col 58%.
Sull’argomento ci sarebbe da innestare innanzitutto l’amara constatazione del palese conflitto di interessi di Angelucci. Certo, il suo non raggiunge le vette indecorose di quello di Berlusconi che da presidente del consiglio restò proprietario di quotidiani, riviste e di ben tre reti televisive in concessione, nonché azionista della Banca Mediolanum. L’enormità del conflitto di interessi berlusconiano ha reso tutti quelli che gli hanno fatto seguito delle modeste e quindi tollerate infrazioni alle regole democratiche. Ed infatti nessuno più si scandalizza se il direttore responsabile di Libero, Mario Sechi, o quello de Il Giornale, Alessandro Sallusti, sostengono apertamente il Governo: il rapporto tra proprietà e direttore responsabile viene ormai percepito come una semplice dipendenza, tant’è che la Meloni, nel reagire alle inchieste a lei poco gradite portate avanti dal quotidiano Domani se l’è presa col proprietario Carlo De Benedetti.
Un’occhiata alle prime pagine di questi giornali, che non esitiamo a definire “di regime”, ci dice però che il tenore denigratorio nei confronti di tutto quanto si oppone all’operato del Governo, che si tratti di istituzioni, come i partiti di opposizione e la magistratura, o di corpi intermedi, come i sindacati e gli organi di garanzia, si è ulteriormente elevato in vista delle elezioni europee, al punto da indurre le redazioni ad omettere dalle prime pagine anche le notizie di primo piano pur di fare spazio ad insinuazioni e deformazioni diffamatorie innescate da modesti eventi riguardanti gli oppositori. E cosi la smania propagandistica di Sechi ha partorito, tra le altre, una prima pagina di Libero, quella del 24 aprile, nella quale alla notizia del giorno (il voltafaccia del Governo all’approvazione del Patto di stabilità già in precedenza condiviso) non viene dato alcuno spazio, mentre tra i titoli spicca “La Polizia presa a mazzate”, posto al centro delle consuete manciate di fango sul PD, le Ong e, naturalmente, sulla new entry Scurati. Belpietro riserva alla notizia del giorno un modestissimo rettangolino dedicando il resto della prima pagina di La Verita alla persecuzione quotidiana dell’ex ministro Speranza e, senza alcun ritegno, a Bergoglio: “Il Papa nella biennale del pianto gay e migranti. – Per la prima volta un pontefice visiterà l’esposizione veneziana. Non un bello spettacolo”.
Ma la disinformazione a scopo propagandistico dei quotidiani di destra non sorprende più. Un po’ come per il conflitto di interessi, ci siamo abituati. Deludono e preoccupano invece da qualche anno le prime pagine de il Fatto Quotidiano, giornale di proprietà di una s.p.a. priva di azionista di controllo e diretto da Marco Travaglio. Di ispirazione liberal-democratica ma via via avvicinatosi alle posizioni del M5s, pare che il suo sostegno al movimento gli abbia fatto perdere l’aura di indipendenza editoriale che ne aveva caratterizzato le origini. Ciò ha comportato, dalla caduta del governo Draghi, un crescente allontanamento dal PD, visto come un concorrente del M5S piuttosto che come un indispensabile alleato nel comune obiettivo di scalzare alle prossime elezioni la destra al governo.
Figura dominante del quotidiano è indubbiamente il direttore responsabile, giornalista a tutto campo che ha conquistato nel tempo simpatie anche a sinistra. Le prime pagine del suo giornale e le partecipazioni ai programmi di approfondimento televisivo suscitano da qualche tempo non poche riserve. Marco Travaglio, preciso ed obiettivo nel citare singoli eventi, tassonomico nel fornire dati, diventa fazioso quando descrive fenomeni politici che si sviluppano nel tempo. Ne ha dato l’ennesima dimostrazione, a chi ascolta con la dovuta attenzione, in una recentissima “ospitata” dalla Gruber durante la quale, interpellato sul caso Scurati, ha descritto la lottizzazione della Rai come un percorso iniziato già prima della discesa in campo di Berlusconi. E fin qui niente da ridire, perché è vero. Preoccupa invece che Travaglio non si sia accorto (o abbia preferito tacerne) delle differenze di dimensione e di sopraffazione che questo fenomeno di malcostume politico, esecrato da tutte le persone intellettualmente oneste, ha assunto nel tempo. Che non si sia trattato di un flusso uniforme dovrebbe saperlo lui per primo, avendo avuto un danno personale dal famoso editto bulgaro di Berlusconi che ne comportò l’estromissione dalla Rai. Ci fosse stata nel tempo un’uniformità negli interventi censorii della lottizzazione, Sangiuliano sarebbe uscito in un paio di tornate elettorali sfavorevoli, per non parlare di Bruno Vespa conficcato nella Rai come un dattero di mare nello scoglio, ancorché scopertamente orientato a destra.
Quanto sta succedendo in Rai ormai da oltre un anno col governo Meloni per Travaglio è dunque in perfetta continuità con quanto capitato nei periodi in cui ha lottizzato anche il PD. Lo sfruttamento propagandistico di questa colpevole semplificazione (tutte lo sono) ha comportato che la prima pagina de il Fatto Quotidiano del 23 aprile titolasse “Elly a pezzi: bocciata dal PD e dalla Basilicata” (come se i 5 Stelle vi avessero conseguito un risultato soddisfacente!). La prima pagina del giorno successivo è sostanzialmente dedicata all’incredibile vicenda di Fassino, accusato di aver rubato un profumo da 100 euro nell’aeroporto di Fiumicino. Notizia alla quale, benché non ancora provata, Travaglio ha deciso cinicamente di dare un rilievo che suona propagandistico contro il PD, non diversamente da quanto hanno fatto i quotidiani di regime sopra ricordati.
Da dove nasca l’avversione di Travaglio per il PD e i suoi predecessori è semplice: si è sempre dichiarato liberale ed in quanto tale si suppone antifascista e anticomunista, dimenticando però, come fa la destra, che in Italia non abbiamo mai sofferto, neppure per un giorno, la dittatura comunista. Ci fosse stata una destra decente, probabilmente Travaglio l’avrebbe appoggiata senza riserve. Lo spettacolo politico non gli piaceva (e come dargli torto?) per cui aderì idealmente sin da subito al nascente movimento di Grillo. Mossi da una comprensibile sfiducia in tutti i partiti, i pentastellati e il loro fondatore furono, ed in gran parte sono rimasti, antipolitici: rifiutarono la prima possibile alleanza col PD di Bersani, errore storico, sognando di raggiungere la maggioranza assoluta per poter governare da soli senza doversi “macchiare” con nessuno dei partiti della prima repubblica. Quando divennero il partito più votato, si resero conto di quanto fosse stato utopistico il loro disegno e si piegarono alla necessità di governare insieme a qualcuno e quel qualcuno sarebbe stato proprio il PD, se Renzi (altro errore storico) non avesse ostacolato l’accordo. Il resto è storia recente ed è un peccato che la posizione di Travaglio si sia ingessata nell’avversione per Renzi, per Draghi e quindi per il PD a fronte di un sostegno incondizionato a Conte, responsabile, tra l’altro, della caduta del governo Draghi (definitivo errore storico).
Travaglio ha evidentemente dimenticato la lealtà con cui il PD ha assecondato le scelte programmatiche dei pentastellati, anche se poco o per nulla condivise. Oggi lo ricambia con interventi pieni di ingiustificato livore. Cosa si aspetta dalle imminenti elezioni europee? Che il M5S superi in percentuale il PD in modo da assicurare a Conte la leadership della pur necessaria alleanza? Nella sua narcisistica ma un po’ miope visione politica, si è chiesto se il sorpasso sia verosimile. E infine si è reso conto che, mentre il movimento da lui sostenuto faceva le bizze rifiutando quasi tutte le proposte unitarie, anche locali, avanzate dalla paziente Schlein, il Governo Meloni sta portando a casa, giorno dopo giorno, oltre alle vittorie elettorali, un bel po’ di tasselli necessari a costruire quel mosaico illiberale che potrebbe completarsi dopo le elezioni europee, specialmente se il risultato del PD e dei pentastellati dovesse essere deludente per entrambi, forse anche a causa della concorrenza sleale di questi ultimi così alacremente da lui alimentata? A un mese dalle elezioni europee non dispiacerebbe se colui che si considera probabilmente il più intelligente analista politico italiano comprendesse che il nemico non è il PD ma la Meloni e che dietro l’angolo c’è la democrazia illiberale, versione appena un po’ meno indigesta della dittatura.