Non sappiamo come si concluderà la vicenda processuale di Ilaria Salis. Difficile pensare ad una assoluzione e la probabile condanna ci fa orrore. La Salis rischia 24 anni a meno che non accetti il patteggiamento per “soli” 11 anni. In Ungheria il reato di cui è accusata è evidentemente gravissimo: l’aver aggredito nel corso di una manifestazione neonazista alcuni partecipanti giudicati guaribili in sette giorni e così poco indignati da non aver neppure sporto denuncia. Si vede che nella condanna gioca un ruolo determinante la circostanza aggravante che le vittime siano neonazisti, una specie peraltro ben lontana dall’estinzione.
Piacerebbe sapere, ma non sprecheremo il nostro tempo in questa impresa, quale sanzione commina il codice penale ungherese per i reati di rapina e di stupro. Non ci stupiremmo se, fatto il debito raffronto col reato contestato alla Salis, la prima fosse punita con l’amputazione dell’arto colpevole e il secondo con la castrazione chimica o magari addirittura chirurgica. Non parliamo dell’omicidio: se l’Europa non l’avesse bandita da un bel pezzo, ci sarebbe la pena di morte e per l’assassinio di un neofascista l’esecuzione capitale dopo trent’anni di lavori forzati. Non bisogna dimenticare che l’Ungheria non fu estranea al nazifascismo ma che lo fiancheggiò con entusiasmo fondando il corpo delle “camicie verdi”, non meno feroci delle “brune” tedesche e delle “nere” italiane ma certamente più delle “verdi” che infestano la “Padania” da oltre quarant’anni. In effetti nelle vene di molti ungheresi non scorre soltanto la musica zigana ma anche una discreta vocazione all’autoritarismo, come conferma l’attuale democrazia orbaniana dichiaratamente illiberale. È bene ricordare che all’alba dell’ultimo conflitto mondiale gli ebrei più consapevoli lasciarono non solo la Germania e l’Austria ma anche l’Ungheria.
Tra le certezze già acquisite intorno al caso Salis occorre segnalare innanzitutto le condizioni indecorose, quasi medievali, della detenzione carceraria, qualcosa che somiglia comunque alla tortura psicologica, essendo vietata quella fisica. Un po’ come qui da noi, dove si tende a chiudere un occhio sui comportamenti a volte vessatori delle forze dell’ordine e dove, non contenti di questa colpevole tolleranza, qualche esponente di FdI ha proposto l’abolizione del reato di tortura.
Ma altri e più allarmanti elementi caratterizzano la comunione di intenti tra la Meloni e Orban: la volontà di limitare la libertà di stampa e quella di subordinare la magistratura al potere esecutivo. La decisione che la magistratura ungherese (in Italia decide un organo giudiziario, il Tribunale di sorveglianza) si accinge a prendere in merito alla richiesta della detenzione domiciliare avanzata dai legali della Salis ci chiarirà se i giudici magiari sono effettivamente indipendenti, come hanno sostenuto nei giorni scorsi la Meloni, Tajani e Nordio suscitando una certa ilarità: se i domiciliari saranno negati, dovremo concludere che avevano ragione loro ma nel contempo rattristarci per la nostra sfortunatissima connazionale. Se, come si spera, la detenzione domiciliare dovesse essere accordata, confermando i diffusi sospetti di un intervento governativo, dovremmo interrogarci su quanto Orban chiederà in cambio di questa nuova concessione alla Meloni e su quanto la nostra Premier si è già impegnata a riconoscergli per l’avvenuta rinuncia dell’Ungheria a porre, unico tra i paesi membri dell’Unione Europea, il veto sul proseguimento dei finanziamenti all’Ucraina. Gli atteggiamenti ricattatori di Orban in politica estera sono noti così come la sua vicinanza a Putin e c’è dunque il rischio che il prezzo da pagare per la sua “generosità” possa rivelarsi insostenibile per chi in Italia si ostina a credere nella democrazia.