La camorra è un fenomeno criminale che affonda le sue radici nella storia della città di Napoli, per secoli capitale del meridione d’Italia. In questo territorio, storicamente ricco di turbolenze politiche e sociali, la camorra si è sviluppata come un sistema di potere parallelo, basato sul controllo del territorio e sulle relazioni di scambio e di intimidazione con la popolazione locale. Indenne ha attraversato diverse fasi storiche, adattandosi ai cambiamenti economici e sociali del paese, e diversificando le sue attività illecite. In questo articolo, cercheremo di ripercorrere le sue origini e le trasformazioni, descrivendone le caratteristiche, i protagonisti e l’impatto sulla società.
La camorra è il nome con cui si indica una setta criminale che opera a Napoli da secoli. Tuttavia, in passato, si era restii a pronunciare il temine “camorra” ufficialmente, sia da chi la combatteva sia da chi ne faceva parte. Si trattava infatti di una denominazione popolare, che si diffuse solo nell’Ottocento, e che i delinquenti accettarono solo in modo informale. Perché il termine camorra veniva rifiutato? Da una parte, i legislatori non volevano riconoscere l’esistenza di una vera e propria organizzazione criminale che sfidava il potere del Regno e minacciava l’ordine pubblico. Dall’altra, gli affiliati non volevano essere etichettati come dei malviventi, ma come dei “nobili della plebe”, che si occupavano di difendere i diritti dei più deboli e di amministrare la giustizia, quando quella ufficiale era assente o corrotta. In questo modo, i camorristi cercavano di costruire una reputazione positiva, basata sul rispetto e sulla solidarietà, e di nascondere le loro bieche attività illecite, come il contrabbando, il racket, l’usura e l’omicidio.
Sul tema della ricostruzione etimologica della parola, Isaia Sales, sociologo che ha dedicato parecchi studi al tema della criminalità organizzata napoletana – tra i quali il testo del 1993, “La camorra. Le camorre” – scrive: «Sull’origine del termine “camorra” non c’è accordo tra gli studiosi. … “Camorra” è innanzitutto un’attività prima ancora che un’organizzazione delinquenziale. Anzi essa indica precisamente un tipo di attività malavitosa svolta: l’estorsione. “Prendersi la camorra” vuol dire infatti estorcere un guadagno minacciando o esercitando violenza, al punto che “camorra” ed “estorsione” sono diventati, nel tempo, sinonimi». Come detto, il lemma “camorra” ha un’origine incerta e il suo etimo è ancora oggi oggetto di discussione. Ci sono diverse ricostruzioni sull’origine della parola. Alcuni storici sostengono che derivi da un’organizzazione di mercenari al soldo dei mercanti, nata a Cagliari nel XIII secolo e chiamata “compagnia di gamurra”, che prendeva il nome dalla gamurra, una giacchetta corta indossata dai membri della organizzazione. Altri autori fanno invece derivare la parola dai “guarduni”, appartenenti al sodalizio criminale spagnolo del XVI secolo detto “Confraternita della guarduna” (dal termine “argot” che indica la rapina), talmente famosa da essere citata dal grande scrittore Miguel Cervantes nella novella “Rinconete y Cortadillo”. Il termine “camorra” lo troviamo per la prima volta in una novella del Pentamerone, opera scritta nel XVI secolo dal poeta napoletano Gian Battista Basile, riferita ad un particolare abito in voga nella spagna moresca; tuttavia secondo gli storici (De Blasio, Barbagallo, De Falco) la parola camorra, intesa nella sua accezione negativa, deriverebbe dal vocabolo arabo kamur col significato di rissa, diverbio acceso, contestazione feroce, termine che rinveniamo anche nel sacro testo del Corano riferito al gioco d’azzardo praticato con i dadi e severamente proibito dal Profeta. “Camorra” compare in un atto ufficiale solo nel 1735, in riferimento al gioco della morra, molto diffuso nelle strade di Napoli. Si tratta di una prammatica borbonica nella quale si autorizzavano a Napoli otto case da gioco. E sembra proprio che il significato della parola sia legato al gioco, nello specifico al gioco della morra, sulle cui vincite i camorristi pretendevano una tangente.
Gli indizi sulle circostanze della fondazione di questa setta sono estremamente frammentari, contraddittori e chiaramente legati alle leggende. Racconta Vittorio Paliotto nel suo libro “Storia della camorra” che, alla fine dell’Ottocento, lo studioso positivista Emanuele Mirabella, indagando i costumi e gli usi dei camorristi detenuti sull’isola di Favignana, venne in possesso di una sorta di questionario utilizzato dai galeotti nei confronti dei nuovi arrivati, per verificare la loro reale appartenenza alla camorra. Gli affiliati dovevano necessariamente conoscere la leggenda dei tre cavalieri Osso, Batosso e Carcagnosso, rispettivamente spagnolo, napoletano e siciliano che, reclusi in carcere, avevano deciso di formare una consorteria criminale per vessare gli altri detenuti. Una volta scontata la pena Batosso e Carcagnosso avevano fatto ritorno nelle loro rispettive patrie fondando la Camorra e la Mafia. Come sempre nelle leggende si nasconde un fondo di verità, è infatti accertato storicamente che la camorra organizzata nasce nel XIX secolo all’interno delle carceri napoletane, favorita dalle restrizioni durissime nei confronti dei criminali e dal contatto tra questi e altre forme di associazionismo dalle quali la camorra prese in prestito comportamenti e regole. La convivenza forzata dei delinquenti comuni con massoni e carbonari nelle carceri servirono da spunto. I galeotti comuni iniziarono anche a copiare i rituali essoterico-massonici per l’affiliazione dei nuovi adepti alla setta. I capi della camorra carceraria chiedevano soldi per comprare “l’uoglio da’ làmpa”, ovvero per comprare combustibile per il lume votivo presente in ogni cella, un mero pretesto estorsivo celato dietro una falsa religiosità. Chiunque, nobile o mendicante, appena varcata la soglia della cella, diveniva vittima dell’estorsione sistematica della camorra. I numerosi istituti carcerari della capitale borbonica (San Francesco, Santa Maria Apparente, Vicaria e i bagni penali di Nisida, Santo Stefano, Procida, Ventotene) divennero veri e propri centri di potere dei malavitosi.
Dalle carceri alla città il passaggio fu breve. La riforma amministrativa e la divisione della città in 12 quartieri voluta da Murat durante il decennio francese a Napoli finì per favorire l’aggregazione dei gruppi criminali. La camorra come organizzazione sui dodici quartieri naque probabilmente nel decennio Venti/Trenta dell’Ottocento, in conseguenza anche di questa divisione amministrativa. A differenziare gli appartenenti alla camorra da tanti altri uomini e donne delinquenti sembra essere stata, oltre ai vincoli associativi descritti, la strategia estorsiva, vera invenzione di questa camorra delle origini che dalle carceri l’aveva portata in città, dove le transazioni economiche, lecite o illecite che fossero, erano soggette a «camorra», parola che finì per indicare oltre all’organizzazione anche la principale sua attività. Secondo lo storico contemporaneo Nicola Nisco, a metà Ottocento l’organizzazione criminale, verticistica e piramidale, funzionava con la precisione di uno stato parallelo e parassita. Si autodefiniva “Bella società rifurmata”, il “capintesta” era il comandante supremo, subito sotto di lui i “capintriti”, nel numero di dodici, ognuno governatore del suo quartiere cittadino. I “contaiuoli”, scelti tra le poche persone alfabetizzate, fungevano da tesorieri. La base era rappresentata dalla Società Maggiore, a cui appartenevano i camorristi veri e propri, e dalla Società Minore, formata dagli aspiranti camorristi chiamati “giovanotti onorati”, “picciotti” e “picciotti di sgarro”. Come detto la camorra oltre a contare su disciplinatissime ramificazioni nelle carceri, manteneva legami con polizia, uomini politici e, secondo alcuni storici, perfino con la corte borbonica. La setta aveva i suoi tribunali, chiamati “Mamme” e “Gran Mamma”, che ai traditori infliggevano pene terribili che andavano dal barbaro sfregio fino all’esecuzione capitale.
La reazione degli abitanti verso questa organizzazione criminale era quasi costantemente di indulgente tolleranza. Infatti, molto lentamente i napoletani finirono per abituarsi alla camorra, la consideravano l’ultima delle loro sofferenze. Dal canto loro, i governi borbonici erano piuttosto propensi a chiudere non uno, ma tutti e due gli occhi sulla “bella società riformata”, molto più impegnati nel contrastare e reprimere crudelmente le attività dei liberali e di chi voleva una Italia unita e libera dalle monarchie assolute. Del resto più volte i capi della camorra si erano dimostrati fieri legittimisti mettendosi a disposizione della monarchia per reprimere i moti rivoluzionari del 1820/21 e del 1830. Ma Francesco I di Borbone forse non conosceva il motto canticchiato dai membri dell’“onorata società”:
Nui non simmo cravunare,
Nui nun simmo realiste,
Nui facimmo ‘e cammurriste
Iammo ‘nculo a chillo e a chiste
E infatti quando il generale Garibaldi, il 7 settembre, entrò a Napoli seduto comodamente in treno, senza sparare un colpo, con pochi uomini al seguito trovò ad accoglierlo Liborio Romano, Ministro di Polizia e Salvatore De Crescenzo, capo della camorra dell’epoca, detto “Tore ‘e Criscienzo”. Quando, dal balcone di Palazzo Doria D’Angri, proclamò l’annessione delle province meridionali al Regno sabaudo, tutti i capintriti della camorra erano schierati in prima fila con la coccarda tricolore. (Michele “o chiazziere”, Nicola Jossa, Ferdinando Mele, Nicola Capuano e tanti altri). Lo storiografo Francesco Benigno, nel suo saggio “La mala setta 1859/1878”, racconta come il ministro Liborio Romano “garantì il passaggio dal regime borbonico a quello garibaldino assicurando l’ordine pubblico grazie ad un esplicito accordo con i principali boss della malavita organizzata”. La camorra, schierandosi apertamente al fianco dei liberatori, assicurò il mantenimento dell’ordine tenendo a freno la folla scalmanata della capitale duosiciliana, inaugurando così di fatto quel dialogo ininterrotto tra lo Stato e le mafie che perdura ancora oggi. Paolo Mieli nel libro “In guerra con il passato. Le falsificazioni della storia” (Rizzoli, 2017) aggiunge che di camorristi e mafiosi si parlava già prima del 1860, “si trattava però di malavitosi di infimo rango al servizio di più padroni, la cui attività era confinata nelle carceri e nei quartieri più malfamati delle città meridionali.” Dopo l’unità italiana le mafie diverranno quel cancro inestirpabile nella travagliata storia del nostro Paese.
L’articolo illumina le relazioni complesse tra la camorra, le istituzioni e la società in generale, mostrando come abbia sviluppato una struttura quasi statale e un’influenza che va oltre le attività criminali.
Dal punto di vista stilistico, il testo è ben articolato e integrato con riferimenti storici e letterari, rendendolo accessibile e informativo.
Complessivamente, l’articolo offre un’analisi completa e sfaccettata della camorra, mettendo in luce le sue radici storiche, culturali e sociali.