Questo giornale ha ospitato recentemente gli interventi degli amici Sergio Pollina e Achille Aveta, sul fondamentale tema del “Male” e delle sue correlazioni religiose, etiche e filosofiche, interventi riccamente argomentati con la competenza in materia religiosa che non difetta a nessuno dei due. Interventi che, credo, abbiano concorso all’approfondimento di uno dei dubbi che più assillano chi ogni giorno assiste alle atrocità ed alle sofferenze proposte dalla cronaca. Considerato che chi si interroga sulle questioni cruciali dell’esistenza umana può accogliere con interesse qualunque contributo, ne propongo anch’io uno, piuttosto “disincantato”.
Devo necessariamente premettere che non sono uno studioso delle religioni. Per quanto poi riguarda la nostra, posso dire che sono stato regolarmente battezzato, ho fatto la prima comunione da privatista, cioè fuori dall’ordinario percorso catechistico e in quella età in cui l’idea del peccato si scontra con i primi bollori giovanili. La cresima l’ho poi affrontata da fuori corso qualche giorno prima del matrimonio religioso. Quello che so l’ho appreso andando tutte le domeniche a messa (forse perché c’erano anche le ragazze?) e da occasionali letture o ascolti di brani tratti dai testi sacri. Tutto ciò per chiarire che, pur interrogandomi costantemente sul senso della vita, sulla responsabilità delle azioni individuali, la religione l’ho vissuta in termini molto dubitativi. Anche perché senso critico e speculazione filosofica confliggono con la fede. Sapere che Sant’Agostino si ispirava a Platone e San Tommaso si rifaceva ad Aristotele mi ha sempre stupito. Mi associo dunque all’osservazione di Sergio Pollina che, commentando la posizione di Hume sulla natura del male, scrive: “Ciò vuol dire che vi è assoluta incompatibilità fra l’esistenza di Dio e quella del male; pertanto, secondo Hume, Dio non esiste e il male fa parte della natura umana.”
Personalmente credo invece che il “Male” non esiste. La religione, tutte le religioni forse, hanno proposto, come per la “Morte”, raffigurata con tanto di falce e mantello nero, una oggettivazione del male, che sia esso il lato oscuro del Dio onnipotente oppure il regno riservato a Lucifero, l’angelo decaduto. L’oggettivazione ha peraltro condizionato, per secoli, anche la speculazione filosofica determinando tutte le contraddizioni giustamente rilevate sia da Sergio Pollina che da Achille Aveta. L’individuazione del male come entità astratta ma incombente ha condotto alla deresponsabilizzazione delle azioni umane. Il male viene esorcizzato attraverso il pentimento e la confessione di chi ha arrecato danni e la sua colpa sarà poi condonata dalla misericordia del Dio buono.
In una visione laica della malvagità esistono invece, più semplicemente, azioni umane che recano ad altri dolore, sofferenza e morte. Né più né meno di quanto asserito da Achille Aveta nel commentare il pensiero espresso dal teologo Hans Küng: «… quindi è l’uomo che ha bisogno di una giustificazione: invece di una teo-dicea ora occorre una antropo-dicea; come se, per usare ancora le parole di Küng, «la sofferenza storica fosse imputabile non a un soggetto, ma solo all’ambiente dell’uomo o alla sua pre-programmazione genetica o ai suoi impulsi o, genericamente, alle strutture individuali, sociali, linguistiche.»
Ed infatti tutti i possibili condizionamenti elencati da Hans Küng possono concorrere a determinare azioni umane riprovevoli, a partire dai più elementari impulsi aggressivi, volti alla difesa dai pericoli, alla protezione della prole, alla necessità di assicurare la propria sopravvivenza. Questa visione antropologica della malvagità non capovolge del tutto il discorso sulla responsabilità individuale che trova comunque giustificazione nelle circostanze elencate da Küng con la non trascurabile differenza che la punizione sarà inflitta all’autore del misfatto mentre è ancora in vita. D’altronde le stesse norme che disciplinano la convivenza nelle comunità umane giudicano l’atto criminoso come una deviazione dalle regole di comportamento e la sanzione detentiva è coerentemente finalizzata alla rieducazione, che costituisce l’equivalente terreno del pentimento cristiano.
Che poi le paure, l’esigenza di possedere, di conquistare, di distruggere dei singoli individui possano essere esasperate ed incanalate verso crimini di massa da chi ne ha il potere non cambia di molto lo scenario, salvo che spesso, la storia ce lo insegna, la sottomissione piena e consapevole a chi induce al male diventa anch’essa deresponsabilizzante. Ovviamente anche la figura del manipolatore, di chi spinge intere masse popolari verso il crimine, può essere motivata da paure, fobie e smanie di potere che hanno però assunto una dimensione patologica.
Ma la sofferenza, il dolore, la morte e la distruzione non sono sempre imputabili alla volontà umana. Cataclismi, terremoti ed epidemie da dove vengono? Chi ne è responsabile? Lucifero? E Dio glielo ha permesso? Sono domande alle quali non possiamo dare altra risposta che l’inesistenza di Dio o il suo disinteresse per l’uomo creato a sua immagine e somiglianza e per tutto il Creato nel suo complesso. Si torna dunque al punto di partenza ed alla inesplicabilità del male.
Conviene allora rifugiarsi nel “caso”, almeno per spiegarsi il male generato dalle azioni umane: è il “caso” che può condizionare la natura, lo sviluppo psichico, le patologie di ciascun essere umano se non addirittura il suo patrimonio genetico, come ipotizzato dallo stesso Küng. È verosimile che un essere umano segnato da malattie congenite possa avere dell’astio nei riguardi di chi è nato sano come un pesce? Oppure che uno di non bell’aspetto possa nutrire sentimenti di invidia nei confronti di chi ne è dotato? O ancora che chi nasce in una famiglia povera possa covare un senso di rivalsa verso i ricchi o i benestanti? E i traumi infantili di cui ci parla la psicanalisi o i modelli culturali proposti nei contesti sociali degradati? E, infine, è possibile che queste condizioni di inferiorità possano condurre chi ne soffre a compiere azioni delittuose? E cosa dire degli incontri del tutto casuali che danno luogo a matrimoni falliti e poi conclusi con azioni violente? Oppure alle banali liti tra automobilisti che finiscono in tragedia?
Ecco, io credo fermamente nel “Caso” che domina le azioni umane e gli accadimenti naturali senza esserne responsabile perché privo di intenzioni: il “Caso” non sbaglia mai. Chissà, forse anche l’Universo è stato creato per “caso”. Da chi, non lo sapremo mai.