Ancora sulla sofferenza

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Se c’è un elemento che accomuna tutti gli esseri umani sin dalla loro comparsa sulla terra, ed anche tutti gli altri esseri viventi, è la sofferenza. Achille Aveta, con l’acume che lo contraddistingue, se ne è occupato su queste pagine, fornendoci alcuni validi spunti di riflessione, che possono compendiarsi, sinteticamente, così: non sappiamo perché si soffre, né perché, se Dio esiste, lo permette. Ed è, anche appropriata, la menzione dell’antico detto ebraico che asserisce che, se conoscessimo la risposta a questa domanda, saremmo Dio.

Su quest’argomento si sono versati fiumi d’inchiostro da millenni da parte di menti brillanti di ogni disciplina scientifica e confessione religiosa, cristiana, musulmana, ebraica, e questo perché non si può, o per lo meno è difficile, parlare della sofferenza senza farvi entrare il concetto di Dio. La domanda che ha sempre tormentato i teologi di tutti i tempi, Boezio, Agostino, Leibnitz e tanti altri, è sempre la stessa: Si Deus est unde malum? Et si non est, unde bonum? Bertrand Russell, nel suo famosissimo Perché non sono cristiano (Ed. TEA, 2010), ci presenta il seguente ragionamento: “Trovo strano pensare che una divinità onnipotente, innocente e benevola abbia preparato il mondo, da nebulose senza vita, in tanti milioni di anni, per ritenersi soddisfatta dell’apparizione finale di Hitler, Stalin della bomba H”.

Si attribuisce, pertanto, all’esistenza o meno di Dio, l’esistenza dei due principi opposti: il bene e il male. Il bene dovrebbe provenire da lui, e il male?

Prima di sceverare l’argomento bisognerebbe anche fare una riflessione riguardante il fatto che sia il bene che il male non sono condizioni assolute, ma dipendono dai punti vista e dalle circostanze. Infatti, ciò che è bene per qualcuno può essere male per qualcun altro, e viceversa. Ma ciò di cui qui vogliamo occuparci è la sofferenza nelle sue accezioni più diffuse: quella fisica e quella morale. Partendo da quella fisica, abbiamo visto che essa riguarda non soltanto la specie umana, ma anche tutte le altre specie animali, per le quali la sofferenza è spesso il loro pane quotidiano. Se dessimo credito alla favoletta del Genesi, sulla creazione della prima coppia umana, la cui trasgressione introdusse il peccato nel mondo, e con esso la sofferenza, troveremmo strano che milioni di creature, da milioni di anni, e cioè infinitamente prima del “peccato” di Adamo, abbiano sofferto e debbano continuare a soffrire per la sconsideratezza di una donna appena creata (ovviamente non fu creata come si deve). Questa è, ovviamente, una delle ragioni per cui i culti fondamentalisti fanno della storia dei nostri due progenitori un evento reale, altrimenti in caso contrario, le loro tesi difficilmente reggerebbero.

Su questo specifico argomento Stephen Greenblatt, premio Pulitzer per la saggistica, nel suo Ascesa e caduta di Adamo ed Eva (Rizzoli, 2017), scrive: “È un racconto che potrebbe colpire l’immaginazione di un bambino impressionabile … ma gli adulti di ieri come di oggi, dovrebbero facilmente accorgersi che è il prodotto di una fantasia molto fertile … Questa è fantasia nella sua veste più fantastica, una storia di pura finzione”.

Ecco perché trovo assolutamente pertinente ciò che scrive Karen Armstrong, giornalista e autrice di successo (nonché ex suora) nel suo Storia di Dio (tascabili Marsilio, Saggi, 1998, p. 3): “In principio gli esseri umani crearono un Dio che era la Causa Prima di tutte le cose e il Signore del cielo e della terra”. Alla luce di questa dichiarazione non è difficile trovare una risposta alla cruciale domanda sul perché della sofferenza. Ritornando alla domanda posta all’inizio, essa costituiva anche l’apertura di un testo famosissimo, che, come dice Philip Zimbardo nel suo L’effetto Lucifero (Raffaello Cortina Editore, 2008, pp. 10-11), “è diventato la bibbia dell’Inquisizione, il Malleus Maleficarum, ovvero il “Martello delle streghe”, che i giudici dell’Inquisizione erano tenuti a leggere. Il libro si apre con un enigma da risolvere: Come può continuare a esistere il male in un mondo governato da un Dio sommamente buono e onnipotente? La risposta è una sola: Dio lo consente per mettere alla prova l’anima degli esseri umani. Se cedi alle tentazioni vai all’Inferno; se resisti alle tentazioni sei accolto in Paradiso … Il tremendo paradosso dell’Inquisizione è che l’ardente e spesso sincero desiderio di combattere il male produsse il male su scala ben più vasta di quanto il mondo avesse mai visto prima”.

È una risposta che non soddisfa per niente, com’è ovvio. Se la sofferenza è causata dall’aver ceduto alla tentazione, perché gli animali soffrono? Non sono anche loro “creature di Dio”? Una rilettura del Cantico delle creature di San Francesco ci ricorda quanta tenerezza e amore nutrisse il poverello di Assisi nei confronti di questi altri esseri viventi. Fu a lui, infatti, che è attribuito il detto: “Se avete uomini che escluderanno una qualsiasi delle creature di Dio dal rifugio della compassione e della pietà, avrete uomini che trattano allo stesso modo i simili”. Ed è così importante avere considerazione per tutti gli altri esseri che vivono su questa terra, che perfino l’attuale papa, Bergoglio, assunse il nome di Francesco, e dopo la sua elezione disse: “La carità di Francesco si estendeva, con cuore di fratello, non solo agli uomini provati dal bisogno, ma anche agli animali senza favella, ai rettili, agli uccelli, a tutte le creature sensibili e insensibili”; e “Un giorno rivedremo i nostri animali nell’eternità di Cristo”. Detto questo, riproponiamo la domanda: anche gli animali sono colpevoli di trasgressione, tanto da meritare le sofferenze senza fine che vengono loro inflitte ogni giorno?

Se, dunque, è proprio Dio che “mette alla prova” gli esseri umani, e ha preparato per chi cede un luogo di sofferenza eterna chiamato “inferno”, non possiamo non chiederci perché con gli onnipotenti mezzi a sua disposizione egli abbia scelto proprio la sofferenza per ottenere la redenzione; sofferenza che da migliaia di anni affligge tutti senza che si intraveda un barlume di redenzione. Quindi, cos’è il male? Secondo Zimbardo (p. 4), «Il male consiste nel comportarsi intenzionalmente in modi che danneggiano, oltraggiamo umiliano, deumanizzano o distruggono altre persone innocenti … In breve è “sapere ciò che è meglio ma fare il peggio”.» Che c’entra Dio in tutto questo? Un Dio che, inflessibilmente e senza pietà volle che il proprio “Figlio” soffrisse pene indicibili, fisiche e morali, solo perché era richiesto il sacrificio di un innocente per redimere il peccato di un colpevole. L’applicazione pratica dell’«occhio per occhio» del Deuteronomio, indice dell’esistenza di un Dio del tutto alieno alla misericordia e al perdono. Pertanto il male e la sofferenza che ne deriva sono esclusivamente da attribuire a due cause: la fragilità della natura umana, che subisce l’aggressione delle malattie, degli incidenti e — inevitabile — della morte, e la libera scelta di individui che provano piacere nell’infliggere sofferenze agli altri; individui malvagi come Eichmann, per esempio, che faceva il male solo perché gli era stato ordinato, e non provava nessun rammarico nel compierlo.

Ma la vittima più illustre di questo interrogativo senza risposta soprannaturale è proprio il personaggio che ha dato il suo nome alla corrente religiosa definita Cristianesimo; Cristianesimo che dovrebbe essere la religione del bene e dell’amore, ma che secondo Bertrand Russell “così com’è organizzato, è stato ed è tuttora il più grande nemico del progresso morale nel mondo” (Perché non sono cristiano, p. 25). Cristo, come tutti gli ebrei del suo tempo, credeva in Dio e nella Torah, e credeva che a breve Jahveh sarebbe intervenuto per riportare il paradiso sulla terra, privo di ogni male e sofferenza. Ne era così convinto che disse ai suoi seguaci: “Perché vi dico in verità che non terminerete di percorrere le città d’Israele prima che venga il Figliuolo dell’uomo”. (Matt. 10:23), e “In verità vi dico che alcuni di coloro che son qui presenti non gusteranno la morte prima d’aver visto il Figliuol dell’uomo venire nel suo regno” (Matt. 16:28). Ovviamente, niente di quello che lui aveva predetto si realizzò. Non v’è dubbio che sia la religione una delle cause principali del male. Qualunque religione, cristiana, musulmana, ebraica e tutte le altre. Una religione, come quella cristiana, che in bocca all’uomo più mite del mondo, mette espressioni come “Serpenti, progenie di vipere, come sfuggirete al castigo dell’inferno?” “Il Figlio dell’uomo invierà i suoi angeli, ed essi raduneranno tutti gli operatori d’iniquità e li getteranno nella fornace ardente. Ivi sarà pianto e stridor di denti”; “Andate via da me, maledetti, nel fuoco eterno”, espressioni in netto contrasto con la bontà, la misericordia e il perdono che avrebbero dovuto essere le sue caratteristiche. Non si comprende, anche, come le trasgressioni compiute nel corso di una vita che non può durare più di alcuni decenni, debbano essere punite per tutta l’eternità, una sproporzione ingiustificabile e malvagia. Nessun tribunale umano lo giustificherebbe. Inoltre, a confermare che quasi tutto ciò che è stato scritto su Gesù è frutto d’invenzione umana, ci sono alcuni episodi che ci fanno riflettere, come fecero riflettere Russell al suo tempo. Per esempio, che colpa avevano i duemila maiali di Gerasa che morirono annegati perché fu “misericordiosamente” concesso agli spiriti impuri di entrare in loro? (Marco 5:11). Oppure, quando in Marco 11:13 troviamo la sua irragionevole condanna del fico per l’eternità solo perché, non essendo la stagione dei fichi, il fico non aveva frutti, com’era naturale che fosse.

Fu Cristo stesso che, infine, si rese conto dell’inutilità e del fallimento di tutta la sua vita quando, innocente, fu sottoposto all’atroce supplizio della croce, e ad una morte infamante; morte voluta espressamente da Dio per la redenzione del genere umano. Tanto è vero che lui, che avrebbe dovuto avere tutte le risposte, essendo figlio di quel Dio che lo mandava a morire fra atroci sofferenze, prima di spirare gridò a gran voce: “Elì, Elì, Lemà sabactàni, che significa: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Matt. 27:46). È evidente che questa domanda contiene in sé tutte le domande che gli uomini si sono poste sin dall’inizio dei tempi quando soffrono e non sanno il perché. E, se l’è posta il presunto figlio di Dio, che avrebbe dovuto aver chiaro più di chiunque altro il piano redentivo di suo Padre, e dunque il perché della sua morte, è evidente che male e sofferenza non hanno niente a che vedere con Dio, qualunque Dio: quello dei cristiani e di tutte le altre fedi religiose, essendo semplicemente il frutto degli accadimenti naturali e delle scelte malvage di alcuni esseri umani. Eppure si continua a crederci. Ed è sempre Russell che spiega che: “molti vi credono perché non sanno liberarsi degli insegnamenti appresi nell’infanzia. Nell’uomo c’è il desiderio di credere in Dio per bisogno di sicurezza e di protezione, una sorta di esigenza che vi sia un grande fratello che vegli sopra di noi. E questo gioca un ruolo importantissimo nello spingere la gente a desiderare di credere in Dio” (p. 21).

La sofferenza, quindi, non cesserà mai di esistere, perché non è un evento programmato, con termini di scadenza, né da un dio, né da nessun altro. Porsi la domanda sul perché essa esiste è come porsi la domanda sul perché sorge e tramonta il sole, o perché la Terra gli gira intorno, o perché esiste la forza di gravità. Se esistesse un dio, due sono le risposte: la prima è che avrebbe dovuto intervenire per eliminarla senza attendere un’eternità di tempo; la seconda è che, avendola voluta lui per i suoi piani imperscrutabili, è del tutto inutile porcela, e quindi: Fiat Voluntas Dei!

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