Lapidi Postume

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Scultura di Filippo Antonio Cifariello

Un uomo vaga per le strade dove ha vissuto ma non le riconosce. Troppo traffico di auto, troppe persone dove una volta pascolavano gli animali delle tante fattorie. Trova la sua abitazione in via Francesco Solimena n°10, sale le scale e si siede in una vecchia poltrona impolverata. È la sua casa ma sembra chiusa da tanto tempo. L’uomo è uno scultore famoso, un’unica opera è rimasta nel suo studio. La statua di uno scugnizzo addormentato, circondato da uva e frutta dell’autunno. Lo scultore guarda ancora verso il balcone poi gira lo sguardo e inizia a raccontare:

«Sono nato povero in un paesino delle Puglie, primo di diciannove figli. Mio padre era un artista poliedrico, geniale ma nun teneva a’ ciorta. I soldi scarseggiavano e lui decise di trasferire tutta la famiglia a Napoli in cerca di maggior fortuna. Io ero un ragazzo fragile, un sognatore, ma Dio mi aveva regalato un gran talento: estrarre dalla materia informe figure fantastiche. Insomma tenevo l’arte ‘e mane. Creavo statuine di terracotta talmente belle che spinsero mio padre a mandarmi a studiare da scultore. Mi mantenevo agli studi facendo pastori per presepi. Lì a Napoli si vendevano bene, soprattutto a San Gregorio Armeno, la strada dei figurai. L’Accademia delle Belle Arti era a pochi passi dalle botteghe degli artigiani, dove ero apprezzato per gli ottimi pezzi che gli portavo, ma nella “Casa delle Arti”, giuvenuttiello e cafone ‘e fora, venivo trattato con sufficienza, con disprezzo. Un solo maestro intuì il mio genio e mi prese sotto la sua ala protettiva. Io, giovane artista, divenni un uomo, un poco scapestrato ma abilissimo nella mia arte. Iniziai a farmi un nome con le opere che esponevo e vendevo bene.»

Il racconto si ferma per un attimo, lo scultore si alza dalla sedia e mostra la statua ancora nel suo studio, l’accarezza come a plasmarla ancora, come se quel gesto tanto usuale potesse riportarlo ad una normalità ormai perduta. Rivolgendosi a un presunto pubblico dice:

«Questo è il bozzetto di un’opera che feci allora, “il ritorno da Piedigrotta” s’intitola. L’originale la vendetti al re d’Italia! Come furono invidiosi quei pezzenti dei miei colleghi artisti… mmeriusi e malelengue! Per screditarmi agli occhi della critica dicevano che ero un “formatore”, che le statue le facevo facendo i calchi sulle persone vive… ma vuje crediteme, Nun era overo!»

Ritorna a sedersi nella poltrona evitando di guardare in direzione del balcone chiuso. Riprende a raccontare:

«Venne la Grande Guerra e partii per il fronte: quanti morti vidi, quanti ragazzi uccisi per un pezzo di terra che non serviva a nessuno. Li tengo ancora dint’ a li grecchie lì strill!»- l’uomo si copre le orecchie come i morti fossero lì davanti a lui.

«Tornai vivo dalla guerra ma qualcosa dentro di me era cambiato: “Sindrome della trincea” dicevano i dottori! Hi hi… – un riso strano gli attraversa la faccia -. La guerra però mi portò un sacco di lavoro. Sculture di militi caduti, di soldati dispersi, di morti. I ritratti dei morti mi fecero ricco! Coi soldi partii per fare la bella vita a Parigi. Scolpivo e bevevo sciampagna cu li femmene chiù cianciose. Una di loro mi rubò il cuore, si faceva chiamare Bianca de Mercy, era bellissima e sensuale, un corpo di fuoco e ghiaccio, uno spettacolo. Tanto era bella sta sciantosa tanto era malvagia.»
L’ uomo adesso sta pensando: la grande testa calva poggia pesante sulla manona da scultore. Improvvisamente sembra ricordare qualcosa:

«Come diceva il mio amico poeta Salvatore “‘e femmene so’ nfame tutte quante e pure quando rideno mettono ncroce ‘e Sant’“»

Lo scultore guarda adesso sospettoso il soffitto buio della stanza poi riprende:

«Tormento ed estasi, passione sfrenata e cattiveria senza fine… uscii pazzo per lei. Me la sposai e la mia arte ne ebbe giovamento. Le mie sculture non erano mai state più belle da quando avevo lei come modella. Ma era venale, si faceva pagare. Voleva sempre soldi e quando non li tenevo se li andava a guadagnare facendo il mestiere più antico del mondo… Una mattina le sparai tre colpi in faccia in una pensione a Posillipo, non potevo sopportare d’immaginarla nelle braccia di un altro.»

Un’altra pausa della narrazione, l’uomo si gira e si guarda alle spalle: non c’è nessuno. Osserva il balcone chiuso, ma evita di guardare il pavimento. Ritorna a raccontare:

«Il processo usci su tutti i giornali, una curiosità morbosa attraeva i lettori. “Uno scultore famoso e una malafemmena“. Un grande avvocato mi fece uscire assolto: “frenosi maniaco depressiva” disse il giudice… insomma pazzo. Ma io non sono pazzo! Credetemi, non lo sono… Tornai a vivere e a scolpire, ma non trovai più la pace. La sciantosa mi perseguitava, mi seguiva ovunque andassi, bellissima e seminuda fluttuava tra le stanze. Mi scocciai e lasciai il mio studio, me ne salii al Vomero, vicino al torrione di San Martino, in mezzo alla natura. Mi risposai cu na guagliona, una cosa di soldi la tenevo, potevo essere felice? E invece no! La sciantosa era gelosa, uccise mia moglie: le fece scoppiare in faccia un fornello a spirito. Povera figlia! Quando arrivai la sciantosa rideva da sopra al balcone, nuda e trasparente: solo io la vedevo. Ma non sono pazzo!»

Altra pausa, lo scultore ritorna nel suo studio e si mette a rimirare lo scugnizzo scolpito, sorride:

«So’ bravo, vero? Eppure non ebbi critica favorevole… troppo popolare, troppo verista, troppo scontato… troppo tutto, tranne che artista. Per loro ero un bravo artigiano, un formatore copione.»

L’uomo alza ancora lo sguardo al soffitto poi torna a sedersi. Avverte una presenza alle sue spalle; appare per un attimo una donna d’altri tempi, seminuda e con la faccia scempiata da ferite di proiettile… La donna indica allo scultore il pavimento, lo invita a guardarlo… l’uomo con un gesto infastidito la invita ad aspettare. Deve ancora raccontare:

«La vita come l’arte mi scorreva nelle vene, ed io volevo vivere, essere felice! Mi sposai di nuovo e feci due bambini. Lei (indica il fantasma) mi fece morire il primo. La polmonite, dissero i dottori, ma io sapevo chi era stata veramente… la sciantosa aveva preso di mira pure l’altro piccerillo. La vedevo che si metteva sopra la culla e lo guardava con la sua faccia ‘nfama. Non potevo fare morire pure l’altro bambino, lo dovevo salvare. Un giorno di marzo mi decisi, presi la rivoltella e andai dove solitamente lei stava, vicino a quel balcone, quello vedete, là dove sta la macchia scura a terra… Mi affacciai, la sciantosa subito mi abbracciò vogliosa, mi baciò ardente…io cacciai la pistola e le sparai, di nuovo, come avevo fatto vent’anni prima… Solo che lei era già morta e quella macchia che vedete la nterra è il sangue mio. Voi che siete vivi vedete l’alone ma io, che sò muort, là a terra vedo il mio corpo, con la testa sfondata dal colpo. Qui ci torno da allora ogni giorno a guardarmi, e lei, la sciantosa, ci viene ogni volta con me… a guardarmi, a vedermi morire. E ride soddisfatta…»

Il vecchio scultore adesso è impegnato in una conversazione animata con la sciantosa. Riprende, alterato, a raccontare:
«Si, si mo gliela dico la verità! – pronuncia questa frase quasi urlando, poi si calma e riprende – Io sono lo scultore Filippo Antonio Cifariello e sono morto suicida in questa stanza perché non sopportavo quello che avevo fatto, questa è la verità! A voi che mi guardate io vi invidio, invidio la vita che potete ancora vivere… Non fate come me, non pensate che le donne siano infami e prostitute per sentirvi in diritto di ammazzarle. Guardate il loro corpo, ascoltate il loro cuore: loro sono state create per illuminare il mondo. Non permettetevi mai di spegnere quella luce!»

Lo scultore adesso ha uno sguardo lucido, quasi paterno ci guarda:

«Se potessi ancora usare quel mazzuolo e lo scalpello, inciderei su tutti i muri questa lapide:

“Dedicato a tutte le vittime degli amori malati,

a tutte le martiri della vigliaccheria maschile

Lo scultore, dopo essersi per un attimo compiaciuto del lavoro fatto nella sua mente, punta il dito indice severo:

«Ora mi rivolgo a chi tenesse male pensiere e stesse sfrennesianno, a chi non crede nel rispetto e nella dignità che merita ogni donna per il solo fatto di esistere, che sia lesbica, bisessuale, transgender, queer, intersessuale o asessuale. Ti dico ciò che mio padre diceva a me quando ero guaglione e allora non capii: “Guagliò nun cercà scuse, fatte ommo!”.»

Lacrime copiose scendono sul volto dello scultore mentre si alza dalla poltrona impolverata e si avvia all’uscita:

«Ora vi lascio, il mio rimorso eterno mi aspetta per farmi compagnia.»

Nota dell’autore: La storia di fantasia è ispirata liberamente alla vita e all’opera dello scultore Filippo Antonio Cifariello (Molfetta, 3 luglio 1864 – Napoli, 5 aprile 1936). La stessa è un’occasione per ricordare il rapporto delle Nazioni Unite (UN Women), sugli omicidi di genere, pubblicato nel 2022. I dati sono inquietanti: 45 mila donne e ragazze – più della metà (56%) delle 81.100 vittime di omicidi lo scorso anno in tutto il mondo – sono state uccise dal marito, partner o altro parente.

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