In casa seguiamo il calcio con piacere. Non siamo degli esperti in fatto di campagne acquisti e di calciomercato, non sappiamo di preciso cosa sono le plusvalenze e i riscatti, ma la partita sappiamo vederla e capirla. L’ultima che abbiamo guardato è stata Francia-Italia per gli Europei under 21, giocata lo scorso 22 giugno in Romania. E ci siamo puntualmente indignati per un arbitraggio più sciatto e superficiale di quanti, e non sono pochi, ci sia capitato di vedere negli ultimi tempi.
Alla fine, sconcertati per l’ingiusta sconfitta della nostra squadra, ci siamo posti la domanda capitale: come e perché si diventa arbitri? Qual è la molla che spinge verso questa professione tutto sommato rischiosa? Per noi baby-boomers di sesso maschile è facile tornare con la memoria agli anni a cavallo del 1950 e del 1960, quando le strade, i viali, i cortili e qualche raro “campetto” di periferia pullulavano di adolescenti che giocavano col leggendario “Super Santos”, pallone di gomma arancione del costo di 350 lire, rompendo di tanto in tanto i vetri di qualche finestra ma alla fine tollerati sia dai residenti che dai passanti.
Per iniziare una partita era necessario che i ragazzini presenti si dividessero in due squadre. I due più bravi sceglievano a turno, uno ad uno, i componenti di ciascuna squadra. Il criterio di scelta era quello di assicurarsi ovviamente i più capaci: i meno dotati venivano scelti per ultimi e giocavano in porta. Se alla fine ne rimaneva uno dispari (evidentemente il più incapace di tutti) gli si chiedeva di fare l’arbitro. Da questo “calcio di strada” oltre agli embrioni degli arbitri venivano fuori, tra l’altro, anche futuri campioni di qualità molto superiore a quelli superpagati dei tempi attuali: Pelé e Maradona non avrebbero mai toccato i vertici della storia del calcio se non avessero, costretti dalle ristrettezze familiari e sociali che li circondavano, giocato ogni giorno per ore ed ore, anche da soli nel cortile di casa, conquistando una confidenza col pallone che le scuole di calcio non potranno mai dare. Non a caso la gran parte dei campioni di oggi proviene dall’Africa, da altre zone disagiate o periferiche come ad esempio le banlieues parigine dove hanno avuto il tempo di addomesticare il pallone anche per mancanza di alternative.
Ma, tornando agli arbitri, possiamo concludere che la premessa psicologica alla loro attività è che non sanno giocare al calcio pur amandolo profondamente. E da questa dolorosa presa di coscienza, peraltro avvenuta in età adolescenziale, nascono frustrazione e senso di rivalsa che si traducono nel desiderio di un potere assoluto sul campo di gioco. Che poi questo potere sia fine a se stesso, cioè la semplice compensazione dello squilibrio psichico di cui dicevamo, o sia indirizzabile verso altre finalità è un discorso aperto.
Proprio alla fine degli anni Cinquanta si affermò la figura dell’arbitro italiano più autorevole di tutti i tempi, Concetto Lo Bello. Nella sua carriera dette prova di grande severità e bravura in più occasioni e si impose anche nelle situazioni più difficili, malgrado le critiche per molte prese di posizione che erano viste come manie di protagonismo. Fu tra i primi a cercare di tutelare gli attaccanti concedendo dei rigori considerati generosi: fu anche arbitro di alcune sfide che decisero il campionato, tra cui lo spareggio-scudetto del 1964 fra Bologna e Inter e la partita di campionato del 1970 tra Cagliari e Juventus, che diede la vittoria dello scudetto ai sardi. In entrambi i casi il titolo andò sorprendentemente agli outsider.
Già allora però non tutti gli arbitri erano scrupolosi, equanimi e onesti come lui. Nella stagione 1961-1962 Lazio e Napoli erano in Serie B, la sfida che disputarono al Flaminio è passata alla storia per il ‘gol’ di Seghedoni. Il giocatore della Lazio segnò su calcio di punizione, ma c’era un buco nella rete, il pallone dopo essere entrato in porta, uscì, e l’arbitrò non convalidò il gol. L’arbitraggio più discusso di tutti i tempi nel calcio italiano riguardò la partita Italia-Cile, decisiva ai fini del passaggio al turno successivo nei mondiali del 1962 che si tenevano in Cile. In quella partita l’arbitro britannico Aston espulse due giocatori italiani per falli duri ma non sanzionò minimamente i falli ben più gravi dei giocatori cileni, soprattutto dell’attaccante Sanchez che colpì con un pugno due giocatori italiani fratturando il naso a uno dei due. Aston non arbitrò più partite né in quella coppa del mondo (ufficialmente a causa di una lesione al tendine di Achille) né nelle successive edizioni.
Da allora il calcio è cambiato e sono cambiati anche gli arbitri. Colpa della crescente massa di interessi che ha accompagnato il successo del più popolare degli sport rendendo molte partite gravide di conseguenze non solo in termini di blasone e di prestigio ma anche in termini economici. Aldilà di ogni sospetto, questo contesto spropositatamente ricco ha accresciuto il condizionamento degli arbitri: è più facile fare un torto all’ultima squadra in classifica che non a quella che la capeggia. Si chiama sudditanza. Ma c’è anche in molti direttori di gara il culto della loro infallibilità che si manifesta, ad esempio, nella mancata consultazione dei guardalinee. Molti di loro si sentono investiti di un potere assoluto mentre altri tendono a ingraziarsi i vertici delle associazioni di categoria per raggiungere posizioni di maggior prestigio.
Il potere dei direttori di gara è stato in parte compresso dall’introduzione di strumenti tecnologici in grado di verificare la correttezza delle decisioni prese in campo, come la goal-line technology che permette di controllare se il pallone abbia superato o meno la linea di porta e il famoso VAR, Video Assistan Referee, che sottopone al riesame di due arbitri fuori campo le immagini al rallentatore di alcune (non tutte) le situazioni di gioco controverse. Va ricordato, senza malizia, che l’introduzione di questo strumento di verifica è stata osteggiata da alcune squadre più prestigiose come, qui da noi, la Juventus.
Bene, nel Campionato Europeo Under 21 tuttora in corso non è previsto l’uso dei suddetti supporti tecnologici, in presenza dei quali probabilmente la nazionale italiana si sarebbe aggiudicata la partita contro la Francia persa a causa di tre clamorosi errori arbitrali. D’altra parte anche il VAR e la goal-line technology non bastano a temperare il protagonismo di molti direttori di gara che continuano, magari anche in perfetta buonafede, a falsare gli esiti di numerose partite. L’episodio più recente ha riguardato la finale della Europe League tra il Siviglia e la Roma, vinta ingiustamente dagli spagnoli pur in presenza di tutti i benedetti supporti tecnologici. Tant’è che Mourinho, il fumantino allenatore della Roma, ha aspettato pazientemente l’arbitro Taylor (britannico anche lui, come il vecchio Aston) e mentre saliva lo ha apostrofato con la frase “Fucking disgrace, fucking disgrace” che tradotta pari pari vuol dire in italiano “Sei una disgrazia del c…”. Quattro giornate di squalifica per Mourinho e 50.000 euro di multa alla Roma. E all’arbitro Taylor? Forse neppure una tiratina di orecchie.
N.B. Su YouTube sono visionabili le sintesi significative di Lazio-Napoli e di Italia-Cile, entrambe del 1962.