Archeologia e Bibbia: Giuseppe e il Faraone

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Raffaello, Giuseppe interpreta i sogni del Faraone (Fonte: Wikimedia Commons)

Chiuso in un recinto su ruote, legato insieme ad altri schiavi, Giuseppe intraprese, suo malgrado, il lungo viaggio verso l’Egitto, per il quale gli schiavi erano un elemento molto importante. Attraverso il loro operato era possibile sostenere il tenore di vita delle famiglie di alto ceto, costruire e manutenere i templi, coltivare i campi e operare nei cantieri.

I 500 chilometri che separavano Dothan dal delta del Nilo erano resi ancora più faticosi dalla carenza di pozze d’acqua, spesso prosciugate, o dalle bande di predoni che imperversavano lungo la costa mediterranea, per cui succedeva spesso che lungo il viaggio si unissero più carovane per difendersi meglio da eventuali attacchi. In un documento rinvenuto dagli scavi archeologici, un alto funzionario egizio riferiva che solo la metà delle carovane arrivavano a destinazione sane e salve.

La Genesi racconta che la carovana in cui Giuseppe viaggiava era accompagnata anche da cammelli, ma questo particolare è molto probabilmente un anacronismo dovuto al fatto che la stesura finale della Torah è avvenuta con ogni probabilità tra il VI e V secolo a.C. Recenti studi archeologici hanno dimostrato, infatti, che i cammelli furono addomesticati nel Vicino Oriente non prima del 1200 a.C. e che solo dopo il X secolo furono utilizzati dalle popolazioni del luogo come il tipico mezzo di trasporto che oggi conosciamo.

I mercanti, comunque, riuscirono a portare a termine il viaggio, raggiungendo infine il confine con l’Egitto a Pelusio, oggi Tell el-Farama. Giunti nella capitale, ad Avaris, Giuseppe fu venduto a un capitano della guardia del faraone, Potifar. Le famiglie di alto ceto, in Egitto, potevano contare su decine di servi. Un documento risalente al XVIII secolo a.C. racconta di una famiglia di Tebe che aveva al suo servizio ben ottanta schiavi.

Era usanza che agli stranieri venisse affidato un nome egizio, insieme al compito di imparare al più presto possibile l’egiziano in modo da poter comprendere gli ordini che gli sarebbero stati in seguito impartiti.

Giuseppe si mostrò subito umile e diligente nell’eseguire i compiti che gli venivano man mano affidati, tanto che Potifar, colpito dal suo comportamento, dalla sua onestà e dalle sue capacità, nel tempo lo nominò prima suo maggiordomo personale ed in seguito gli affidò tutti i suoi averi (Genesi 39:4). Giuseppe era anche bello e prestante, un particolare, questo, che però fu per lui causa di grossi problemi. La moglie di Potifar, infatti, il cui nome, Zuleikha, compare solo nel Corano, cominciò ad essere attratta irresistibilmente dal giovane e, un giorno, ritrovandosi sola con lui, tentò di sedurlo.

Giuseppe, non avendo nessuna intenzione di tradire la fiducia di Potifar, rifiutò le avance di Zuleikha, la quale, vedendosi rigettata, decise di vendicarsi denunciando al marito di essere da lui stata importunata. Potifar credette alla versione della moglie e, deluso, chiuse Giuseppe in prigione.

All’interno della sua cella, Giuseppe finì per condividere la prigionia con due uomini provenienti dalla corte del faraone, finiti in prigione per un qualche tipo di reato: il panettiere reale e il coppiere.

Trascorsero i giorni, fino a quando, una notte, il sonno dei due uomini fu turbato da sogni inquietanti. Al mattino i due raccontarono a Giuseppe quanto avevano sognato. Il coppiere aveva visto tre tralci di vite, tenendo tra le mani il calice del faraone. Dopo aver preso gli acini, li aveva spremuti nella coppa per poi porgerla al faraone stesso. Il panettiere, invece, aveva sognato di avere in testa tre canestri di pani e degli uccelli che venivano a beccarli.

Giuseppe che, come abbiamo visto nella parte precedente, aveva sviluppato in sé la capacità di interpretare i sogni, spiegò ai due il loro significato. Purtroppo il panettiere sarebbe presto stato messo a morte, mentre il coppiere sarebbe stato riconosciuto innocente, sarebbe stato liberato e avrebbe ripreso pienamente le sue funzioni all’interno della corte reale.

I sogni, in Egitto, erano presi in grande considerazione, come testimoniano i ritrovamenti di decine di Libri dei sogni finalizzati allo loro interpretazione. Uno di questi è il documento intitolato Insegnamento per Merikara redatto poco prima del periodo hyksos, corrispondente alla XV dinastia (1650-1550 a.C.). Per questa ragione, quando una notte un incubo turbò profondamente il sonno del faraone, la corte intera entrò in forte agitazione.

Il faraone aveva sognato sette vacche grasse uscire da un fiume. Improvvisamente erano sopraggiunte sette vacche magre che le avevano aggredite e divorate. Furono convocati a corte tutti i saggi e gli indovini del regno, ma nessuno fu in grado di comprendere il significato del sogno.

Improvvisamente, il coppiere che aveva condiviso la cella con Giuseppe, si ricordò della capacità che questi aveva nell’interpretare i sogni e lo riferì al faraone, il quale decise di provare il tutto per tutto e lo convocò immediatamente. Giuseppe ascoltò attentamente il sogno e spiegò al faraone che la visione presagiva un evento inquietante: l’Egitto, dopo sette anni di abbondanza, avrebbe visto sette anni di siccità. La maat, l’ordine dell’impero, era in pericolo.

Giuseppe consigliò al faraone di nominare un responsabile saggio a capo di una serie di commissari incaricati di gestire tutti i raccolti che nei prossimi sette anni di abbondanza l’Egitto avrebbe visto. Il faraone fissò in silenzio Giuseppe. Lo scrutò profondamente. Poi gli disse: “Sarai tu stesso il mio governatore!”. In un solo istante, lo schiavo ebreo prese la carica di Gran Visir, la posizione politica più potente d’Egitto, ricoprendo un ruolo secondo solo al faraone stesso.

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