L’apprendimento associativo è quel tipo di comportamento, di natura evolutiva, che si basa su una valutazione del rapporto costi-benefici. Ossia se il costo di un’azione, svolta consapevolmente o no, è superiore o inferiore al beneficio ottenuto, indipendentemente se la valutazione si basa su schemi reali o immaginari. Nella nostra evoluzione abbiamo sviluppato degli schemi, che ci sono stati utili per la sopravvivenza e la riproduzione, i due imperativi darwiniani.
Ad esempio un innocuo fruscio nella foresta prodotto dal vento ha sviluppato uno schema comportamentale di allerta e difesa in quanto il costo di un beneficio immediato era superiore a quello di una errata valutazione (essere il pasto giornaliero di una belva). La selezione naturale ha quindi sostenuto delle strategie che hanno favorito numerose associazioni casuali scorrette, al fine di effettuare anche quelle che sono essenziali per la sopravvivenza. Una di queste associazioni ad esempio, che è stata stravolta ed è diventata negativa e dannosa, è la preferenza per gli zuccheri che, istintivamente associata a un alto potere nutritivo, è diventata così radicata nei gusti alimentari che si è trasformata nella principale causa di obesità e malattie nelle società occidentali. All’estremo opposto abbiamo il noto effetto di repulsione per un alimento o una bevanda che ci ha provocato un violento attacco di vomito o nausea (nel mio caso è l’anguria).
Ci sono poi le credenze, il paranormale, la fede nel soprannaturale, la superstizione, che nascono anch’essi dalla tendenza ad associare eventi casuali a un agente o un’essenza. Una volta consolidatosi dunque questo “schemismo” associativo, si è sviluppata la tendenza ad attribuire significato e intenzioni agli schemi, addirittura un’essenza, come se anche gli oggetti inanimati o i fenomeni naturali trasmettessero ad altri il loro potere e la loro qualità: ad esempio il tennista che serve con la stessa palla con la quale in precedenza ha ottenuto un punto, o il calciatore che bacia la palla prima di un rigore per ingraziarsela a dirigersi in rete, evitando il portiere.
C’è dunque la naturale tendenza ad attribuire ad “agenti intenzionali” quello che in realtà è retto dal caso, secondo la teoria della mente, ossia la consapevolezza di stati mentali (come i desideri o le intenzioni) in noi e negli altri. Quindi il binomio schemismo-intenzionismo è alla base di ogni credenza. Il problema è che la credenza, la magia, la superstizione hanno milioni di anni, mentre la scienza con i suoi metodi di indagine e controllo ne ha solo qualche centinaio, ma sufficienti a riconoscere stati mentali radicati, riconducibili a effetti biologici di circuiti cerebrali. La mente e il cervello infatti non sono due entità separate. Quello che chiamiamo mente non è altro che la parola per descrivere l’attività dei neuroni cerebrali (100 miliardi) attraverso circa 1000 trilioni di connessioni sinaptiche. Immaginate che potere computazionale garantiscono cifre del genere.
Queste innumerevoli autostrade cerebrali portano gli impulsi (reattivi e informativi), grazie ai mediatori chimici che ne favoriscono la trasmissione da un’area all’altra. L’adrenalina ad esempio è uno di questi e svolge il ruolo di chiave che apre la serratura dei recettori tra le sinapsi (i collegamenti tra i neuroni) consentendo il passaggio dell’impulso attraverso la depolarizzazione della membrana degli assoni (i prolungamenti dei neuroni che comunicano con altri neuroni). Ma per l’argomento trattato il mediatore che ci interessa per il suo coinvolgimento nelle sensazioni di piacere, appagamento e gratificazione è la dopamina. Una molecola che però ha il grosso svantaggio della dipendenza: il gioco d’azzardo, la cocaina, le idee ossessive, il paranormale e le credenze inondano il cervello di dopamina che induce, in un circolo vizioso, a ricercare e vivere in continuazione situazioni e sostanze che ripetono l’esperienza gratificante.
Il nesso tra dopamina e credenze fu individuato in soggetti inclini a trovare senso alle coincidenze e individuare significati e schemi dove non esistevano. Questo fenomeno poi fu verificato in soggetti scettici, cui fu somministrata la L-DOPA (un farmaco che viene usato nel trattamento del morbo di Parkinson, dove aumenta i livelli di dopamina) che nei controlli mostrarono una riduzione dello scetticismo più che un intensificarsi della credenza.
A parte questi dettagli tecnici, gli scienziati hanno verificato queste osservazioni anche con indagini strumentali come la RMf (risonanza magnetica funzionale) che registra l’attività delle aree cerebrali. Hanno visto che nelle regioni fronto-temporali si attivano le stesse aree in chi ascolta o è indotto a pensare a idee religiose e in chi è impegnato a cercare un significato, uno schema o una intenzione in un fenomeno accidentale casuale. Verifica che ha coinvolto anche i due emisferi cerebrali: il sinistro (che presiede alla parte verbale, logica e razionale) e il destro (la parte intuitiva, emotiva, creativa e metaforica). Ebbene, anche se leggera, nei credenti (come negli artisti) c’è una prevalenza dell’attività dell’emisfero destro.
Questi sono i dati, recenti ma abbastanza solidi e in attesa di smentita (altrimenti non sarebbe scienza), che fanno pensare a quanto la nostra vita e le nostre scelte, nonostante i progressi culturali, siano determinati dal contesto biologico e ambientale. E quanto, nell’abbracciare una credenza, siamo vittime del “bias di conferma”, un errore cognitivo che ci fa ricercare, approvare e prestar fede solo a quei fenomeni e manifestazioni che confermano le nostre convinzioni. Insomma siamo scimmie che si sono alzate da terra e non angeli caduti dal cielo.