Spesso si è parlato di economia keynesiana per descrivere il sistema di mutuo soccorso esistente nelle microcomunità cittadine europee dei secoli scorsi. La cosiddetta “economia napoletana del vicolo” ne era un esempio performante. Tra i vari soggetti esercenti si sviluppava un circuito autosufficiente dove ognuno col suo mestiere ed il suo ruolo contribuiva a soddisfare le esigenze di consumo dell’altro. Il tutto favorito dalla conformazione dei luoghi e dalla commistione disomogenea delle diverse classi sociali molto spesso insistenti nello stesso stabile.
Il casadduoglio era un valido esponente di questa economia di sussistenza. Egli era nei fatti un salumiere, venditore al minuto di generi alimentari che il gusto popolare di un tempo identificava fondamentalmente con i formaggi, l’olio, il lardo e gli insaccati: lo stesse esercente che nel Nord del nostro paese veniva definito pizzicagnolo, perché trattava soprattutto alimenti pizzicanti (piccanti) quali i salumi e i caci stagionati. Come apprendiamo dallo storico De Falco, nel suo Dizionario della lingua Napoletana, il lemma deriverebbe dalla fusione dei termini latini “casea = formaggio”e “olea = olio”, alimenti principali del suo commercio. Sono tantissimi nella lingua i riferimenti letterari a questa professione, da Giulio Cesare Cortese nel “Viaggio de Parnaso” del secolo XVI a Gianbattista Basile nella “Vaiasseide”, ma anche nel cinema di Totò: chi non ricorda la scena del film ““Miseria e nobiltà” in cui Enzo Turco decide di impegnare il paltò?
Un mestiere diremmo iconico con il suo ruolo fondamentale nella società del tempo: sfamare un popolo affetto da fame cronica e da quasi nessuna disponibilità economica. Difficoltà aggirata agevolmente con il ricorso alla vendita a credito, detta in napoletano “faticà ‘a llibbretta”, dove ‘a libretta (block notes) contiene l’elenco dei debitori dell’esercente. Altri attributi fondamentali del casadduoglio, per tenersi stretta la clientela e non perdere i suoi crediti, dovevano essere il garbo, la cordialità, la cortesia, la conoscenza dei gusti della clientela, riassunti nel termine dialettale “a maniera”. Nell’ordine di quelle iniziative di cortesia mirate alla fidelizzazione degli avventori vi era la preparazione, nell’approssimarsi del Natale e della Pasqua, di un cesto contenente tutte le vivande necessarie alle preparazioni dei pranzi festivi, pagato dagli acquirenti a piccole rate per diverse settimane, fino all’estinzione del debito. Tale operazione solidale permetteva alla stragrande maggioranza di poter santificare le festività banchettando pantagruelicamente in famiglia. Questa usanza solo partenopea veniva definita ‘o canìsto (canestro, cesto), metonimia lessicale che consisteva nell’usare il nome del contenente per il contenuto. Ma cosa conteneva questo canìsto? Una bellissima poesia di Eduardo De Filippo ci viene in aiuto:
‘O canisto ‘o mannava ‘o putecaro
p’’a festa ‘e Pasca…
Sunav’’a porta e quanno ll’arapive,
primm”e trasi’ ‘o guarzone
ca purtava ‘o canisto pesante sotto ‘o vraccio,
traseva dint”a casa l’addore d”a puteca ‘e putecaro,
addò ‘o ffurmaggio, ‘a provola, ‘o ssalame,’a murtadella,
‘e cicule, ‘o ppresutto, nziemo ch”e chiapparielle
e ll’aulive e ll’alice salate ch”e ssardine, campano tutte nzieme,
alleramente, cumm’a dint’a nu vascio, na famiglia
cchiù sta nzardata e cchiù se vo’ nzarda’.
Era ‘o canisto
tutt’annucato e violacciocche attuorno!
Era l’usanza ‘e quanno ‘o neguziante s”a teneva gelosa ‘a clientela,
ll’accunto s”allisciava e te mannava primma d”o iuorno d”a festività,
tanta rrobba mmiscata, ca t’abbastava tutta na semmana:
tutta ‘a semmana ‘e Pasca.
Superbo affresco che ci tratteggia in pochi versi non solo il contenuto alimentare ma anche il sentimento di felicità che scaturiva nelle famiglie alla vista di quel ben di Dio stipato in una cesta.
Altro modo per ottenere un canìsto nelle feste comandate era quello di sfidare la sorte, cioè acquistando il biglietto di una lotteria istantanea organizzata nei quartieri da mestieranti improvvisati detti arriffatori.
Il termine arriffatore, dallo spagnolo “riffar” (sorteggio), compare sul palcoscenico della quotidianità cittadina nel periodo vicereale. Abbigliato con abiti sgargianti era solito coprirsi il petto con una sorta di pettorina realizzata con gli articoli messi in palio. Si arriffava di tutto, dai generi alimentari all’abbigliamento ai piccoli animali da cortile (quasi mai i soldi, appannaggio del “juoco piccolo” o lotto clandestino, gestito dalla camorra). Accompagnato nel suo ministero frequentemente da una figura en travestì (un femminello), girava per i quartieri dove era accreditato per vendere i numeri fortunati. Questi però non erano solo 90, come nella tombola o nel lotto, ma 1000. Per tale motivo questa lotteria veniva definita ‘o migliaro (migliaio) ed il banditore ‘o migliatàro. Appena incassata la somma necessaria a coprire le spese e il suo guadagno, gli arriffatori richiamavano l’attenzione di tutti con voce squillante e sottintesi maliziosi (né ca io mo’ tiro!). Spesso l’operazione era teatralizzata in modo da attirare l’attenzione dei passanti e delle donne di casa. Non a caso in questo frangente l’arriffatore si faceva affiancare dal femminiello che rendeva più divertente e interessante l’estrazione.
Una curiosità letteraria raccontata dal grande drammaturgo Raffaele Viviani nella sua autobiografia “Dalla vita alle scene”: «Quella sera i seratanti, per più e meglio vendere i biglietti, fecero una certa “combinazione” con il pubblico che, io credo, in nessun altro angolo del mondo verrà mai più imitata. Si dava un chilo di carne, un chilo di pasta, un chilo di pane, un litro d’olio, 5 lire in danaro ed una poltrona (?!) per l’“Arena Olimpia” da scontarsi, tutto, a una lira per settimana!… Si capisce che se il costo reale di tutta questa roba fosse stato, mettiamo, di 15 lire, a queste si aggiungevano i relativi interessi per la facilitazione del pagamento; e siccome il popolo d’ogni paese – ed il napoletano in ispecie – dice: “A mangiare ci penso io, a pagare… lascia fare Iddio!” quella sera il teatro era strapieno».
Sembra di raccontare di un passato tanto remoto da essere ricordato solo nei libri, ma fino agli anni Ottanta del secolo scorso, tutto ciò faceva parte della realtà quotidiana, almeno del mio quartiere. Dopo il terremoto dell’80 la città è cambiata dal punto di vista urbanistico, sociale ed economico. I trasferimenti forzati dei sinistrati, dovuti ai crolli della “città di cartone”, verso le periferie urbane, hanno finito per portare alla disgregazione di quelle microcomunità che creavano una sorta di amalgama sociale tra i napoletani. Molto spesso i sinistrati sono stati relegati in realtà urbanistiche nuove e desolanti (167, Lotto 0, Case dei Puffi, vari Bronx) lontane non solo chilometricamente dal centro cittadino ma distanti dalla dignità dovuta a ogni cittadino di qualsiasi parte del mondo. Ma questa è un’altra storia…